- In Francia c’è un tariffario minimo, stabilito per decreto: presentare un libro, tot; fare una conferenza, tot. In Italia se ne parla da anni, non succede nulla. E intanto? La vita culturale intorno ai libri (e non solo) è garantita in gran parte dal volontariato. Si dà per scontato che queste prestazioni professionali non valgano niente.
- Reagisco male, cerco di educarli uno per uno. Sono sempre più moralistico e incarognito. Non mi piace come sto diventando. Mi sto avvelenando, e mi sa che sta succedendo lo stesso ai miei colleghi e colleghe.
- Il fatto è che siamo i primi a non avere autostima e consapevolezza civile del nostro ruolo; a furia di vedere tacciato di narcisismo, vanagloria e convenienza personale qualsiasi contributo individuale fatto in pubblico, quest’epoca ci fa sentire decorativi, siamo onorati che qualcuno ci convochi per ascoltare qualche parola saggia o brillante, e tanto ci basta.
Quanto costa la cultura? Quanto rende? Vale la pena studiare una vita per avere continue conferme che tutto questo sapere vale zero? Vincenzo Latronico ha fatto un bell’intervento sul Post, puntando il dito sulla nudità dell’Imperatore.
Questa volta il falso vestito del sovrano è l’indotto economico. Tutti ci guadagnano dal Salone del Libro, tranne chi i libri li scrive e li presenta. Latronico mette insieme una “vertigine della lista”, reale quanto spassosa: guadagnano «gli albergatori e i tassisti, gli autisti di Uber e i gestori degli Airbnb, i chioschi Autogrill in fiera, i cartongessisti, i magazzinieri, gli spacciatori di Borgo Dora, gli ambulanti dei Murazzi, artisti di strada guardie giurate gelatai parcheggiatori escort».
Tutti incassano, fuorché le persone per cui i visitatori vanno al Salone, cioè i relatori e gli autori (sì, anche gli autori: i diritti d’autore sono infimi, e si intascano dopo un anno e più). Simonetta Sciandivasci rilancia sulla Stampa, dice che al Salone ne parlano tutti. Persino Luigi Mascheroni sul Giornale, che di solito punzecchia vanità autoriali vere o presunte, questa volta è d’accordo.
Leggere
Presentare un libro vuol dire leggerlo, studiarlo, preparare domande e osservazioni sagaci, dare il meglio di sé, al servizio del pubblico e dell’autore o autrice del libro. Ore di lavoro. Andare a Torino (a Mantova, a Pordenone, a Roma, a Trani, a Cuneo, a Milano) significa impegnare almeno un giorno del proprio tempo. Quanto chiederebbe, un professionista di qualsiasi tipo, dall’elettricista all’architetto al fisioterapista all’avvocato, per una prestazione del genere?
Il Salone del Libro di Torino ha circa milleseicento eventi. Facendo un calcolo al ribasso, contando un paio di persone impegnate per ciascun incontro (dibattiti, presentazioni, tavole rotonde), fanno circa tremila prestazioni individuali. Mi sembra evidente che, se vivessimo nella realtà e non nel Paese del Balocchi Culturali, bisognerebbe aggiungere al bilancio del Salone almeno un milione di euro per garantire un compenso minimamente dignitoso a tutti quelli che intervengono (io l’ho chiesto e ottenuto, negli ultimi anni, ma con una mia contrattazione individuale, e solo per le letture sceniche). Lo dico alla prossima direttrice, Annalena Benini, perché si attivi e trovi questi soldi. E lo dico a tutti i direttori dei festival, convegni e istituzioni varie.
Le buste
È proprio come dice Latronico. Anche a me hanno pagato per presentare i miei libri in Germania. Buste allungate dai librai, con sussiegosi ringraziamenti per il mio disturbo. In Francia c’è un tariffario minimo, stabilito per decreto: presentare un libro, tot; fare una conferenza, tot. In Italia se ne parla da anni, non succede nulla. E intanto? La vita culturale intorno ai libri (e non solo) è garantita in gran parte dal volontariato. Si dà per scontato che queste prestazioni professionali non valgano niente.
Ho tenuto l’elenco delle proposte di lavori non pagati che mi hanno fatto l’anno scorso. Conferenze, lezioni universitarie, scrittura di articoli e prefazioni, interventi a convegni, presentazioni di libri, trasmissioni radio. Circa una trentina. Mettiamo che ciascuna richieda un giorno di lavoro (non è così, ci vuole più tempo, e spesso c’è una trasferta, altro tempo perso): fanno trenta giorni. Vorrei sapere chi può permettersi di lavorare gratis per un mese l’anno. Ho detto di no a quasi tutti.
Nonostante ciò, accetto lo stesso tante proposte, faccio un sacco di prestazioni non retribuite. Presento libri altrui, vado nelle scuole e nelle università, leggo manoscritti di conoscenti e sconosciuti (tutte cose extra, che non fanno parte dell’elenco a cui accennavo prima).
Di recente mi invitano a fare una conferenza, su un tema non deciso da me; dovrei studiare e prepararmi. Chiedo che onorario c’è. «Non è nella nostra policy dare un fee ai conferenzieri», mi rispondono. «Dunque», ho ribattuto, «quando andate al supermercato dite che non è nella vostra policy lasciare un fee alla cassa?».
Reagisco male, cerco di educarli uno per uno. Sono sempre più moralistico e incarognito. Non mi piace come sto diventando. Mi sto avvelenando, e mi sa che sta succedendo lo stesso ai miei colleghi e colleghe.
Tremilasettecento pagine
Faccio parte dei seicento e più votanti del premione letterario nazionale. Quest’anno, i libri della dozzina di semifinalisti, impilati uno sopra l’altro, totalizzano 3.700 pagine. Due settimane di lettura a tempo pieno. Quando mi è arrivato a casa lo scatolone con i dodici libri e l’ho aperto, il mio commento è stato: ahahaha.
Poi, siccome il mio senso del dovere (cioè dell’autodistruzione) non riesco a estirparmelo, do a tutti una chance: leggo la prima trentina di pagine, e se il libro mi piglia vado avanti, altrimenti lo mollo, esattamente come faccio nella mia vita di lettore. Ma un bel po’ di ore di lavoro vanno via anche così.
Anch’io, anni fa, ho fatto parte della giuria per esordienti, il Premio Calvino. Duemila pagine di fotocopie formato A4 fitte di parole. Esiste da trentasette anni; la giuria cambia a ogni edizione: ormai sono quasi duecento gli scrittori, le scrittrici e i critici letterari che in tutti questi anni hanno regalato tempo e competenza per scegliere i vincitori, vale a dire per aiutare un nostro concittadino o concittadina a rendere pubblica la sua voce, la sua interpretazione del mondo, il suo romanzo.
Quale altra categoria professionale devolve così tanto tempo e prestazioni competenti? Se vi sento ancora fare i bulli sulla “società letteraria” italiana con articoletti satirici stile Foglio vi aspetto sotto casa.
Una decina di anni fa ho coordinato a Venezia il gruppo Piccoli Maestri, una sorta di filiale della bellissima iniziativa avviata a Roma da Elena Stancanelli. Andare gratuitamente nelle scuole a raccontare i libri, i classici e le gemme del presente, per invogliare i ragazzi a leggerli (ovviamente vietato propagandare i propri libri).
L’ho fatto per tre anni, ci sono state centinaia di incontri, miei e degli altri autori e autrici coinvolti, nelle scuole primarie, medie e alle superiori. Poi mi sono detto: stupendo incontrare bambini e adolescenti e fargli scoprire questi tesori letterari; ma in una prospettiva sistemica, che cosa sto facendo? Sto tappando una falla delle istituzioni.
Corro in soccorso alle inadempienze e, proprio per questo, faccio sì che restino tali. Voi, fra un idraulico (bravo) che viene e vi fa il lavoro gratis, e un altro (bravo uguale) che si fa pagare, chi chiamereste? Perché mai le scuole, gli enti locali, i ministeri, lo stato dovrebbero investire denari per arricchire la loro offerta formativa, quando essa si offre gratis da sé?
Lo sciopero degli asini
Forse l’unico modo per far sentire all’Italia il proprio fabbisogno di cultura sarebbe provocarne la penuria. Sottrarsi. Grazie dell’invito, non veniamo. Vediamo come fate, senza di noi. Temo che uno sciopero di questo tipo non sapremmo mai farlo.
Non tanto, come dice Latronico, perché «sindacalizzare gli scrittori è come federare i gatti» (ma non si parla solo gli scrittori: ci sono tutte le persone che presentano, introducono, intervistano, dialogano, dibattono, espongono, conferenziano, tavolarotondano): il fatto è che siamo i primi a non avere autostima e consapevolezza civile del nostro ruolo; a furia di vedere tacciato di narcisismo, vanagloria e convenienza personale qualsiasi contributo individuale fatto in pubblico, quest’epoca ci fa sentire decorativi, siamo onorati che qualcuno ci convochi per ascoltare qualche parola saggia o brillante, e tanto ci basta.
È ovvio che, finché diremo di sì, e andremo a tutti i Saloni, i Festival, le presentazioni in libreria, le conferenze, le lezioni, le tavole rotonde, i convegni, le giurie letterarie, le scuole, senza chiedere un centesimo, il Paese dei Balocchi Culturali resterà in piedi, fingendo che l’esistenza sia infinita, la vita non costi cara e stare al mondo sia fare festa intorno a una fontana di spritz. A Pinocchio e Lucignolo dopo un po’ crescevano le orecchie. Io ero già un asino per natura. Da un po’ di tempo in qua, oltre a ragliare, recalcitro.
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