Netflix – nel vasto mondo delle nuove chimere offerte dalla rete sotto forma di social network, app e servizi – sta diventando più virtuale del virtuale (si faceva lo stesso gioco di parole anche quando esisteva un mondo tangibile, ricordate? Più reale del reale), cioè sta fagocitando le nostre vite declinando in varie forme sempre lo stesso spettacolo. Il concetto stesso di serialità lo dice. Il sogno di ogni scrittura seriale è che la serie non finisca mai, continui all’infinito.

Ma se si trova la formula universale per narrare qualunque cosa, allora forse questo sogno ipnotico è davvero possibile. Che importa che una serie finisca dopo tre o quattro stagioni se poi ne comincia un’altra esattamente identica (anche se apparentemente diversa, quantomeno nei contenuti)? È così che la visione si perpetua, e chi guarda (non saprei come chiamare questa nuova utenza Netflix, di certo non si tratta di cinefili o semplici telespettatori, categorie diverse e ampiamente decodificate in passato) è semplicemente sopraffatto dal flusso, lo cerca e lo teme, e alla fine se ne lascia morire.

L’arte di persuadere

La chiave per la formula universale di questo particolare tipo di intrattenimento si può ricercare nella parola storytelling. È interessante vedere come il mondo artistico, specie quello della scrittura, di fatto si è appropriato di una parola che nasceva per indicare sfere e campi di applicazione molto lontani dalla creatività. Il dizionario dice: «L’arte del raccontare storie impiegata come strategia di comunicazione persuasiva, spec. in ambito politico, economico ed aziendale». Lo storytelling quindi nasce come dispositivo di persuasione.

Attraverso un procedimento mutuato (soltanto mutuato!) dall’arte narrativa – il vecchio adagio di una comunità seduta in cerchio intorno al fuoco e di un uomo che prende la parola e dice: «Ti racconto una storia» - si mira a essere convincenti in ambiti politici o economici (ma che cos’è la religione se non una grandissima operazione di storytelling? E non è un caso, forse, che qualcuno l’abbia anche chiamata “oppio dei popoli”).

Nel caso di Netflix tutto questo si traduce in un movimento autoreferenziale. Netflix vuole persuaderci di guardare Netflix. Non importa cosa guardiamo – tanto è tutto uguale, anche se non lo sappiamo vedere – l’importante è guardare, continuare a guardare. Ecco allora che si comincia a scorgere una deriva rispetto alle forme narrative tradizionali del passato. Non solo le storie sono intorno a noi – come recita il claim di una celebre scuola di scrittura creativa – ma tutto si può ridurre a una storia. La storia non diventa il modo per rendere flessibile un discorso che quindi diventa possibile soltanto attraverso il suo racconto (come succede per la letteratura, ad esempio), bensì il segreto di Pulcinella per rendere qualunque cosa una forma di spettacolo, intrattenimento puro.

Le regole d’ingaggio

Prendiamo la serie Netflix del momento, SanPa, su Vincenzo Muccioli e i fatti di san Patrignano. Le reazioni sono tutte entusiastiche nel dire che la serie è veramente ben fatta, che è “bella”.

E la serie, in effetti, pur documentando un pezzo di storia tragico dell’Italia, un vuoto politico-legislativo e medico-clinico, nella sua costruzione non fa altro che alimentare questo aspetto di rendere narrativa una tragedia vera, di per sé non così dinamica e piena di fatti, cambi di prospettiva, colpi di scena, grazie a uno storytelling potente (ma forse sarebbe il caso di chiamarlo tossico).

La linea narrativa, con tutti i suoi espedienti audiovisivi (le immagini shock calate come assi a bastone, la colonna sonora pervasiva da crime) piega ai suoi fini il senso del tragico, e i fattoni sono di nuovo usati, stavolta per intrattenerci. Particolarmente significativo, rispetto a questo aspetto, l’uso del turning point a fine puntata, in modo da tenere alta l’attenzione di chi guarda, e il packaging molto curato, in particolare la sigla, che sembra ricordare più una fiction (Narcos?) che una docu-serie.

Mi si dirà che queste sono le regole d’ingaggio nell’era di Netflix, e onestamente non saprei proprio cosa ribattere. Tecnicamente siamo di fronte a un prodotto glocal, definizione che nasce da una crasi tra le parole local e global. Nel linguaggio dell’intrattenimento l’elemento locale – folcloristico, perfino esotico – deve risultare immediatamente comprensibile a chiunque.

Un fenomeno locale è interessante non in quanto portatore di reale alterità, ma proprio per il motivo opposto: deve portare omologazione, cancellazione della differenza. Per chi guarda deve esserci sempre il sollievo di un riconoscimento, mai la paura di uno spaesamento, men che mai lo sforzo della comprensione di una diversità, di un altrove.

Ecco che la bislacca comunità di san Patrignano (l’elemento local) si allarga nella figura del drogato e delle dipendenze (l’elemento global). Chiaramente le criticità che il racconto farebbe pure emergere vengono schiacciate dalla prosecuzione dello spettacolo, così pure in SanPa molte sono le domande inevase: perché Muccioli cominciò con la comunità di recupero? Qual è davvero il suo passato prima di diventare Sanpa? Il ruolo sociale delle droghe a cavallo degli anni Settanta e Ottanta in Italia servì anche a calmierare i movimenti di contestazione? Quale fu il ruolo dello stato? Quali le attività di Muccioli? Il flusso di denaro? La sua malattia e morte?

I nuovi drogati

Tutto è rappresentato – si fa ricorso ossessivamente a immagini di repertorio che, come ogni immagine, seducono senza dire niente – nulla è seriamente indagato.

L’unico elemento fuori posto, se vogliamo, benché rientri perfettamente nei canoni de “l’intervista a uno dei protagonisti”, è la testimonianza di Fabio Cantelli, ex tossico ed ex responsabile dell’ufficio stampa della comunità, il quale ci racconta dal di dentro tutte le contraddizioni della sua esperienza, scendendo davvero in profondità rispetto ai confini di quel che è lecito o non è lecito fare per il recupero di un tossicodipendente. Ma, appunto, è un canto fuori dal coro.

Per il resto, l’indagine è polverizzata dall’esaltazione, nel bene o nel male, del personaggio Muccioli, personaggio nella vita e personaggio al quadrato proprio grazie alla serie, che spinge più che a una riflessione profonda a una polarizzazione e perciò alla tifoseria: da una parte il Muccioli santo che dà gli schiaffi che i genitori progressisti non sono più capaci di dare; dall’altra il Muccioli padre padrone in preda a delirio narcisistico, che abusa di un potere che si è auto-conferito.

Tutto sommato, da un punto di vista formale, niente di molto diverso da un’altra serie recente che abbiamo visto tutti e di cui abbiamo sentito la necessità di parlare tutti: The last dance, che raccontava dell’epopea di Michael Jordan, del più grande cestista di tutti i tempi. Anche lì, uno scheletro narrativo, le musichette, gli scandali, i turning point a fine puntata, le testimonianze dei compagni, gli amici e i nemici.

Qualcuno potrà dire, strumentalmente o in buona fede, che la serie può servire per rilanciare il dibattito sulle droghe, sulle liberalizzazioni, sul ruolo delle mafie nel controllo delle piazze. Può darsi, ma intanto un’altra serie sta cominciando. Non è che i nuovi drogati siamo noi?

 

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