- Saverio Raimondo, con il suo nuovo libro Memorie di un elettore riluttante, Feltrinelli, facendola a pezzi, ricompone la democrazia e la espone come un cimelio. C’è da volergli bene
- Nel libro dialoga amabilmente con i padri della democrazia e compie una parabola autobiografica che lo porta dall’iniziale spaesamento alle prese con il voto fino al punto di potersi dichiarare contrario al suffragio universale
- Saverio Raimondo è l’ultimo satirico d’Italia. Come non ci si può improvvisare statisti, non ci si può improvvisare comici
Qualche anno fa, il giornalista Andrea Coccia incorniciò platealmente la propria tessera elettorale e la appese al muro nell’ambito di una piccola cerimonia domestica dichiarando che lì sarebbe rimasta per sempre. Non so se poi l’abbia estratta nuovamente da quella che avrebbe dovuto essere la sua tomba di plexiglass, ma fu un gesto che molti della nostra generazione avrebbero approvato.
La prima Repubblica era ormai un ricordo lontano, la sinistra si era diluita in qualcosa che non rappresentava più in alcun modo il pensiero di sinistra, il populismo la faceva da padrone e chi, come Coccia, aveva una coscienza schierata, semplicemente non se la sentiva più. Non era il fallimento della democrazia, ma il suo canto del cigno. La tessera veniva esposta come un cimelio appartenuto a tempi migliori, o tempi nei quali aveva avuto un valore che ormai non incarnava più – quando era servita a qualcosa, insomma – che aveva smesso per sempre di svolgere la propria funzione primaria.
Fare a pezzi la democrazia
Saverio Raimondo, con il suo nuovo libro Memorie di un elettore riluttante, Feltrinelli, compie un gesto più o meno analogo. Facendola a pezzi, ricompone la democrazia e la espone come un cimelio. C’è da volergli bene.
In un saggio del 2006 che evoca il titolo di Raimondo pur trattando temi assolutamente distanti, L’evoluzionista riluttante, David Quammen racconta la vita di Charles Darwin attraverso uno sconforto quasi insopportabile di fronte alla sua intuizione più importante: quella teoria dell’evoluzione che, per un britannico ottocentesco con alle spalle una formazione teologica, rappresentava contemporaneamente lo svelamento della verità e la disfatta di tutte le convinzioni.
Allo stesso modo, Raimondo è di fronte alla sua rivelazione personale: la glorificazione della democrazia attraverso il suo fallimento a partire dal primo, incredulo, rifiuto del diritto di voto e giù lungo una serie di tentativi comici e drammatici di fare funzionare quel suo inalienabile privilegio nel quale ha sempre ciecamente credito ma di cui, ci si rende conto leggendo, non ha mai davvero saputo bene che farsene.
Valori stiracchiati
È satira, ma è anche la confessione di un esponente di quella stessa generazione che è cresciuta con valori politici sempre più sottili e impalpabili, stiracchiati al punto di svanire in un filo di polvere che si solleva da una cabina abbandonata montata in una desolata scuola elementare.
Chi ha raggiunto la maturità – formale, intesa come “maggiore età” – circondato dal berlusconismo, non può non comprendere Raimondo quando scrive: «Questo era in effetti lo stato della mia consapevolezza politica: sapevo contro chi stavo votando, ma non mi era altrettanto chiaro per cosa». Perché i nemici erano lì, cristallini e orgogliosi. Li avevamo in parte ricevuti in eredità dai nostri genitori e avevano l’aspetto oscuro e autoritario dei fascisti che ancora si muovevano nell’ombra, e in parte li avevamo visti formarsi e compattarsi dall’embrione nazionalpopolare del qualunquismo imperante.
Degli amici, invece, si avvertiva sempre meno la presenza e le loro voci si mescolavano a una strana litania di fondo, dalla quale era difficile desumere un programma convincente. Ma forse lo sto prendendo un po’ troppo sul serio.
Eppure, come in un romanzo di formazione, leggendo dei dolori sociali del giovane Saverio ritrovo anche molte di quelle domande prive di risposte univoche che poi hanno portato alcuni a rivolgersi alle sirene del canto populista e altri a comprare una cornice all’Ikea per tumulare il proprio diritto elettorale.
Raimondo è il suo personaggio: quel colto, raffinato, nevrotico sé stesso di cui non si libera mai – dalla stand up comedy alle occasioni sociali, vestito di velluto a coste e tweed, con il quale non esiste argomento impossibile da affrontare e che lo trovi meno che preparato; ma è anche, più che in altri ambiti, nudo.
La satira è il suo pane dagli esordi, quando, come gli è capitato di raccontarmi, a 18 anni ha improvvisato uno spogliarello al contrario (partiva in mutande e si rivestiva) per farsi assumere come autore da Serena Dandini. Trovarlo da solo, penna tra i denti come un consumato lupo di mare, di fronte alla spietata bestia politica è un piacere che da molto tempo non ci era dato.
Ed è evidentemente qualcosa che non solo gli riesce bene, ma lo gratifica più di ogni altra, perché il suo viaggio di ricostruzione democratica è al contempo divertente e fonte inesauribile di spunti di riflessione. Sembra, leggendolo, che sia finalmente tornato a casa, in un ambiente che gli è congeniale e dove non ha paura di muoversi: se rompe qualcosa lo fa con estrema consapevolezza e probabilmente non ha nulla in contrario a portarsi a casa i cocci dei quali, suppongo, deve essere un accanito collezionista.
L’ultimo satirico
In Memorie di un elettore riluttante dialoga amabilmente con i padri della democrazia, una nutrita schiera di filosofi, varie proiezioni di sé, ma soprattutto compie una parabola autobiografica che lo porta dall’iniziale spaesamento alle prese con la macchina elettorale a una completa padronanza del mezzo, al punto da potersi dichiarare, in fondo, contrario al perpetrarsi del suffragio universale.
Di nuovo, è satira, ma è anche un ottimo modo di dare voce e aria al pensiero di chi non se la sente di voltare le spalle a tutto ma nemmeno di fare finta che gli ingranaggi siano ancora perfettamente oliati e funzionanti come all’alba della cosa ateniese o al risveglio del sogno dell’immediato dopoguerra. «Siamo così convinti di essere nel giusto», diceva in un monologo il comico americano George Carlin, «Che non abbiamo idea di quanto ci stiamo sbagliando». Raimondo si schiera contro questa arroganza a muso ugualmente duro, punta dita e matite spuntate, ghigna e ringhia, forte di un’arte che padroneggia da più vent’anni di carriera televisiva alle prese con tutta la politica possibile in un Paese talmente politicamente instabile che rende «più probabile votare che scopare».
Fa quello che gi riesce meglio senza risparmiarsi in umorismo pungente che ricorda sempre più da vicino il suo grande maestro Woody Allen, ma non si allontana poi tanto dalla parodia grottesca del primo Paolo Villaggio. È in splendida forma, così come la sua satira e quando, alla fine, ha ridotto la democrazia a brandelli provandone ormai senza ombra di dubbio la fallacia, le rivolge uno sguardo benevolo, quell’espressione dolce che si riserverebbe a una nemesi ormai vecchia e stanca; la accarezza su una guancia e la espone alla celebrazione pubblica.
Saverio Raimondo è l’ultimo satirico d’Italia e Memorie di un elettore riluttante è la prova che si può ancora usare l’umorismo in maniera intelligente e incisiva. Come non ci si può improvvisare statisti, non ci si può improvvisare comici e Raimondo sa entrambe le cose. Per questo ne prende sul serio solo una delle due.
Memorie di un elettore riluttante (Feltrinelli 2022, pp. 158, euro 15) è un libro del comico Saverio Raimondo
© Riproduzione riservata