Nel suo ultimo, discusso, volume, Cursed, il fotografo ha raccolto 70 istantanee realizzate con Midjourney. Assomigliano a fotografie senza esserlo, ma soprattutto non vogliono nascondere la propria natura di oggetti realizzati da un algoritmo
Charlie Engman è uno dei ragazzacci della fotografia contemporanea. È nato a Chicago nel 1987 e ha iniziato a scattare foto mentre frequentava la facoltà di Studi giapponesi e coreani a Oxford. Oggi abita a Brooklyn, lavora per i più importanti marchi di moda ed è direttore artistico di un piccolo brand, Collina Strada, che produce moda sostenibile.
Il suo stile, di volta in volta, viene definito: eclettico, provocatorio, giocoso, audace, intimo, dinamico. Quando non lavora per Prada, Vivienne Westwood o Stella McCartney si dedica progetti personali. Il suo esordio l’aveva fatto con il volume Mom (Edition Patrick Frey, 2019), folle e bulimica raccolta di ritratti di sua madre Kathleen, realizzati nel corso di un decennio.
L’artista americano ha immortalato la donna in centinaia di modalità diverse, utilizzando i codici più svariati: la moda, la pubblicità, l’erotismo, la documentazione. L’apparenza camaleontica della modella crea un cortocircuito con il suo permanere, in ogni immagine, la madre di chi sta dietro l’obiettivo. È gioco ed è introspezione. È ricerca linguistica e parodia. Ossessione e liberazione. Di recente Engman ha dato alle stampe anche un altrettanto folle saggio per immagini, intitolato Hello Chaos, a Love Story – The Disorder of Seeing and Being Seen, nel quale riflette sulla natura del nostro rapporto con l’universo delle immagini raccontando la bizzarra storia di una Hello Kitty che si innamora di Mickey Mouse (spoiler: lui è gay).
L’obiettivo dell’algoritmo
Non meno provocatoria è l’ultima fatica di Engman, Cursed (SPBH, 2024), il volume più chiacchierato dell’ultima edizione di Paris Photo. In un’elegante veste da tradizionale libro fotografico – formato quadrato, copertina cartonata, carta pregiata – raccoglie 70 immagini realizzate con l’intelligenza artificiale.
Assomigliano a fotografie senza esserlo, ma soprattutto non vogliono nascondere la propria natura di oggetti realizzati da un algoritmo. Alfred Stieglitz, tra i padri della fotografia modernista, in polemica con i pittorialisti di inizio Novecento, affermava che il suo intento era realizzare fotografie che sembrassero sempre più fotografie e non pittura.
Engman sembra fargli il verso, questa volta scommettendo sulla potenzialità propria del nuovo strumento e spogliando la tecnologia dell’aura di madre di tutti gli inganni. Si tratta di immagini che possiedono un alto grado di fotorealismo, superiore a quello a cui ci siamo abituati guardando i risultati finora raggiunti dall’Ia. Eppure, ed è qui il paradosso, ciò che mostrano non ha quasi mai nulla di realistico. Situazioni, posizione dei corpi, superfici, materiali. In ogni immagine c’è sempre qualcosa di incongruente e surreale. Ed è proprio tale incongruenza che rende interessante ciò che si vede. Ed è difficilissimo descrivere a parole ciò che appare. Il caso più semplice è quello della mano a sei dita che regge un piccolo oggetto di ceramica. Gli altri sono rompicapo visivi più o meno evidenti. Mulinelli che trascinano la nostra attenzione nel loro gorgo.
Generare cliché
«Nonostante non contenga una sola fotografia, questo è il libro fotografico più classico che abbia mai realizzato. L’ho affrontato come dovessi creare un libro di poesia visiva», spiega Engman. L’artista ha utilizzato Midjourney, uno dei più comuni strumenti di intelligenza artificiale generativa disponibili gratuitamente sul web. È partito da input di tipo diverso: immagini, testi o un misto di entrambi.
«Di solito mi faccio un’idea generale di ciò che voglio ottenere e cerco di realizzarlo. Ma non ci riesco mai al primo tentativo. Così inizia un processo ricorsivo, in cui l’output diventa parte dell’input successivo, dove cerco di trovare il giusto equilibrio estetico». Si è trattato, per Engman, di scoprire la propria voce artistica in dialogo con uno strumento che è progettato per generare cliché.
«A me interessa molto l’idea di convenzione, cerco di sfidare le aspettative che appartengono alla nostra cultura visiva. L’intelligenza artificiale è come se cercasse di sistematizzare questi codici: composizione, illuminazione, soggetto… Tuttavia, essendo una macchina che non pensa, l’IA non riesce mai a replicare correttamente il cliché».
È su questo crinale che gioca l’artista: «Realizzando male lo stereotipo, il programma è come se svelasse, dal mio punto di vista, ciò che di interessante, complicato, appiccicoso è sepolto in esso e che è la ragione per cui esiste. Nel cliché esiste un nucleo di bellezza e fragilità che la cultura ha anestetizzato». Per Engman l’intelligenza artificiale è in grado far breccia nello strato protettivo attorno a quel nucleo, rendendo il cliché qualcosa di più interessante. È come se si trattasse di uno stress test della tecnologia e della sua capacità di generare cultura.
“Cursed image”
Il titolo Cursed, maledetto, fa riferimento al termine “cursed image”, coniato sul web qualche anno fa per indicare un’immagine che è percepita come misteriosa o inquietante a causa del contenuto, della scarsa qualità o di una combinazione dei due elementi.
Basta farsi un giro sul profilo Instagram @cursed_images per capire di che cosa si tratta. Spiega Engman: «Sono maledette perché in esse c’è un’ambiguità a cui non si riesce a dare un nome. Nei lavori che ho realizzato con Midjourney ho trovato lo stesso tipo di qualità, in cui aberrazioni, errori, incongruenze sono frutto del processo tecnologico e che io non sarei stato in grado di realizzare in modo efficace altrimenti. Sono immagini scomode, perché non si riescono a spiegare ma, allo stesso tempo, spesso evocano buon umore». Ma non solo. L’idea di maledizione è legata all’idea di magia o incantesimo. Che, nel caso nell’IA, è ciò che avviene dentro l’algoritmo e che non è controllabile né da chi lo utilizza né da chi lo ha progettato.
Oggi è inevitabile che un libro del genere, realizzato da un artista che si definisce fotografo, faccia discutere. Eppure quello di Engman non sembra uno dei tanti fenomeni che cavalca la moda del momento. Il punto non è mostrare quando sia possibile ingannare lo spettatore o creare un divertissement fine a sé stesso. Alla base di questo tipo di lavoro c’è una tentativo più sottile e profondo.
«La fotografia è una sorta di rapporto di seconda mano con il mondo fisico. Rappresenta le cose», spiega l’artista: «Invece l’intelligenza artificiale ha con esse un rapporto ancora più lontano. E a me interessa questo allontanarsi dall’elemento centrale, che è l’oggetto, il corpo. Voglio capire che cosa, in questo processo, si perde e che cosa si guadagna».
E, a ben vedere, è proprio il corpo ad essere al centro di Cursed. Corpi a volte incongrui, in altri casi deformati, qualche volta belli ma incompleti. Pelli diafane che dialogano con materiali che assomigliano loro per colore e trama. Corpi umani e corpi animali che interagiscono in modo inaspettato. C’è quasi un’ostentazione del senso di tridimensionalità, costretta nelle due dimensioni. Così, al paradosso di immagini costruite per sembrare false e verosimili allo stesso tempo, si aggiunge quello di trattare il tema della corporeità con la tecnologia più disincarnata. La sfida che Engman ha lanciato a sé stesso, stando alla qualità della sequenza che presenta in Cursed, sembra esser stata vinta. La domanda che rimane, viste le premesse, è dove la propria creatività nomade e irriverente porterà in futuro questo ragazzaccio.
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