Il 4 febbraio 2020, sollecitato dal collega Angelo d’Orsi, ho lanciato una petizione contro lo schwa sottoscritta finora da più di 23.000 firmatari, siglata da una trentina di intellettuali, fra linguisti e letterati, storici e filosofi, artisti e scrittori (da Massimo Cacciari ad Alessandro Barbero, da Edith Bruck ad Ascanio Celestini, da Cristina Comencini a Barbara De Rossi, da Luca Serianni a Francesco Sabatini, da Gian Luigi Beccaria a Claudio Marazzini, presidente dell’Accademia della Crusca).

Disorientamento normativo, aggravamento di disturbi neuroatipici, aumento del disordine prodotto dalla moltiplicazione incontrollata delle marche di genere (asterischi, slash, chioccioline, ecc.), natura destrutturante dell’innovazione. Sono alcune delle ragioni per le quali ritenevo – e ritengo – inaccettabile l’immissione dello schwa (ə) nell’italiano corrente, nel suo ruolo di vocale neutra portatrice d’inclusività.

In cima a tutto c’era però l’abuso istituzionale di un simbolo affiorato, con lo schwa “lungo” (3) per l’indicazione del plurale, in sei verbali redatti dalla Commissione nazionale per l’abilitazione scientifica nazionale alle funzioni di professore universitario di prima e seconda fascia del Settore concorsuale 13/B3 – Organizzazione Aziendale.

Lo schwa e lo schwa “lungo” comparivano anche nei giudizi collegiali sui candidati, e in quelli formulati singolarmente dal presidente, dal segretario e da un terzo membro dei cinque componenti della Commissione (qui, però, in un unico caso, con riferimento a un solo candidato: «professorə associato»).

Mi sono chiesto come una tale violazione delle regole dell’italiano normativo potesse aver investito addirittura atti pubblici e liberamente consultabili, e mi sono risposto adducendo altre motivazioni, ancor più dirimenti di quelle indicate, a rinforzo dell’inammissibilità dello schwa nell’uso linguistico corrente: il serio pericolo di una sua “ufficializzazione” e i danni arrecati da cinque commissari incoscienti ai doveri di trasparenza della pubblica amministrazione.

Resto ancora in paziente attesa di una risposta della ministra dell’Università e della ricerca alla e-mail certificata che le ho fatto recapitare il 29 marzo scorso, tramite il mio legale (inviata per conoscenza al ministro dell’Istruzione, al presidente del Consiglio e al presidente della Repubblica), con allegata una perizia redatta da due esperti, Antonello Fabio Caterino e Désirée Fioretti.

Nella pec ho chiesto che i sei verbali interessati venissero riscritti in italiano normativo, ma è intanto arrivata una risposta del ministro per la Pubblica amministrazione Renato Brunetta a un’interrogazione parlamentare in materia presentata dal senatore Mario Pittoni, vicepresidente leghista della commissione Cultura di palazzo Madama.

Nel rinviare a un elenco di documenti prodotti dal Dipartimento della funzione pubblica del ministero per la Pubblica amministrazione, in particolare a due direttive del 2005 (“Direttiva sulla semplificazione del linguaggio delle pubbliche amministrazioni”) e del 2007 (“Misure per attuare parità e pari opportunità tra uomini e donne nelle amministrazioni pubbliche”), il ministro Brunetta fa notare come in nessuno di quei documenti venga «fatto riferimento alla possibilità di impiegare la desinenza neutra schwa a fini inclusivi, non discriminatori e non definitori di genere».

Come non bastasse, a corredo della documentazione fornita, viene citato dal ministro il passaggio di un atto del 2020, emanato dall’Agenzia delle entrate (“Linee guida per l’uso di un linguaggio rispettoso delle differenze di genere”): «È importante ricordare che l’uso di forme abbreviate con l’asterisco al posto della desinenza (“collegh*”) è sconsigliabile perché può ostacolare la comprensione del testo o appesantirne la lettura. Poiché lo sdoppiamento (“colleghe e colleghi”) comporta un allungamento e un appesantimento del testo, in alternativa è spesso preferibile l’utilizzo dei sostantivi non marcati o di nomi collettivi». Più chiaro di così.

 

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