Il verticismo e la preferenza per la venerazione sono i tratti del linguista arrivato a 95 anni ignorando le critiche. La facoltà di innovare è stata riconosciuta solo al capo e a pochi eletti che compongono il suo inner circle
Il 7 dicembre scorso Noam Chomsky, il celebre linguista statunitense, ha compiuto novantacinque anni. Colpisce che molti linguisti insigni, anche se meno noti di lui, siano arrivati a età ugualmente avanzate. John Lyons (autore di un famoso trattato), M.A.K. Halliday (geniale analista dell’enunciazione), Hansjakob Seiler (uno dei padri della tipologia linguistica), Harald Weinrich (il creatore della linguistica testuale), Bice Mortara Garavelli (finissima studiosa dello stile) se ne sono andati ben oltre i novant’anni. Che la linguistica (lo dico incrociando le dita) faccia bene alla salute?
Il caso di Chomsky è anche più sorprendente, in quanto il Grande Vecchio, oltre a produrre studi tecnici, non ha mai cessato di esprimersi in politica, con posizioni radicali in nome della democrazia libertaria e di una sorta tutta sua di anarco-comunismo, della lotta al capitalismo e alla disinformazione.
In molte sedi, e non da oggi, Chomsky è definito come l’intellettuale più influente del mondo. Non so se sia davvero il più influente, ma il suo cognome è incluso nei correttori degli smartphone e di Word, il suo account Facebook ha un milione e mezzo di follower, e da qualche parte del mondo appaiono grandi murales con la sua faccia. Insomma, la sua figura è uscita dalla linguistica e ha debordato su altri terreni. Tra i leader intellettuali novecenteschi, Chomsky ha alcune somiglianze con Sigmund Freud: la creazione rapidissima di una scuola globale rimanendone i capi indiscussi; la sovrana indifferenza (più marcata in Chomsky) alle critiche; e la gestione duramente carismatica degli allievi. Per questo, per entrambi ci sono stati numerosi casi di transfughi e foreign fighters. Non mancano però le differenze: per dirne una, la finissima prosa di Freud contrasta con quella, legnosa e ripetitiva, di Chomsky.
Chomsky ha pubblicato moltissimo, la sua teoria (la “linguistica generativa”) ha avuto molte versioni, la più parte basate sul ripudio della versione precedente. Inoltre, la teoria è espressa con terminologia e simbolismi tutti particolari, di generica ispirazione informatica e in continua evoluzione, usati anche come sigillo di appartenenza. Una delle pochissime cose immutate in tanti anni (i primi lavori di Chomsky sono della fine degli anni Cinquanta) è la felice trovata dell’aggettivo “generativo”, che ha preso il volo e ormai è una sorta di brand.
In tutte le sue fasi, la linguistica generativa fa perno sulla sintassi (considerata come «il nucleo fondamentale del linguaggio umano»). La fase più recente (quale appare per esempio in Perché solo noi. Linguaggio ed evoluzione, scritto con l’informatico Robert C. Berwick, Bollati Boringhieri, 2016) si fonda su alcune tesi che riassumo come segue. Ogni lingua incorpora un insieme finito di “principi” determinati geneticamente e quindi universali: per esempio, ogni frase deve avere un soggetto. Per ciascun principio, le lingue devono optare per uno o l’altro di alcuni “parametri”, paragonabili alle posizioni di un interruttore: per esempio, il soggetto può essere obbligatorio (come in inglese) o no (come in italiano). I principi e i parametri, che sono in numero limitato, formano nel loro insieme la Grammatica Universale, supposta comune a tutte le lingue. In secondo luogo, il carattere distintivo delle lingue è la ricorsività, cioè la possibilità di applicare certe operazioni un numero indefinito di volte (come quando inseriamo le relative una dentro l’altra). Essendo per Chomsky esclusivamente umana, la ricorsività è un indizio cruciale del Grande Salto evolutivo che separa il primate dall’uomo (da qui il “perché solo noi” nel titolo del libro menzionato sopra). Il suo estremo determinismo genetico lo ha spinto a sostenere che, siccome le parole, e i concetti che ne sono alla base, sono depositate nei nostri geni da quando la nostra specie è emersa, tutti gli esseri umani, sin dalle epoche arcaiche, hanno gli stessi concetti.
Verso il fantasy
Inutile dire che ognuna di queste tesi, adottate da allievi e allieve in migliaia di lavori in tutto il mondo, ha suscitato critiche implacabili da avversari di ogni indirizzo (incluso chi scrive), anche se, come ho detto, è tipico di Chomsky ignorare gli oppositori senza fare un plissé. Ugualmente criticate sono state le numerose proposte che Chomsky ha lanciato nel dibattito filosofico. Anzitutto il recupero dell’idea di innatismo (la facoltà di linguaggio non si impara, ma è geneticamente impressa nell’uomo) e di creatività linguistica (possiamo capire frasi mai sentite prima e produrre frasi mai pronunciate prima). Più di recente, l’idea della “povertà dello stimolo”, secondo cui il bambino acquisisce la sua lingua nella varietà delle sue forme malgrado la scarsità di stimoli che riceve nei primi anni.
Negli ultimi anni, forse perché protetto dalla sua età biblica, Chomsky, che pure ha difeso per decenni l’idea della linguistica come scienza naturale, si è lanciato in tesi che sfiorano il fantasy. Nel 2020 ha sostenuto, senza evidenza alcuna, che «ogni lingua, in qualunque luogo dell’Universo, dovrebbe somigliare al linguaggio umano». Non pago, nel recentissimo volume collettivo Xenolinguistics (sottotitolo: «Verso una scienza del linguaggio extraterrestre») ha profetizzato che «qualsiasi extraterrestre intelligente sarebbe probabilmente dotato di un software linguistico di tipo umano, eliminando così qualsiasi limite di principio alla comunicazione efficace».
A dispetto dei suoi eccessi e delle innumerevoli critiche, il pensiero di Chomsky, in politica non meno che in linguistica, ha avuto un’enorme risonanza. Ha suscitato un’amplissima varietà di ricerche e discussioni anche in altri ambiti (psicologia, neuroscienze, informatica, biologia, filosofia), ha rivelato un gran numero di fenomeni sconosciuti, portando per la prima volta la linguistica (di per sé scienza “povera”) al bordo della big science e agli onori dei media, sia pure a costo di creare tra adepti e oppositori una frattura che si trascina da più di mezzo secolo.
Il capo
Contrassegni del movimento sono da sempre il verticismo (causa di fughe e conversioni) e l’atteggiamento di venerazione adorante di molti appartenenti. Infatti Chomsky, democratico radical in politica, ha mostrato in linguistica un volto di guru dispotico. La facoltà di innovare è stata riconosciuta quasi solo al capo. Agli adepti di primo rango, e solo a loro, è stato concesso di apportare qualche integrazione.
Un documento interessante dei due fenomeni è il recente volumetto (I segreti delle parole, La Nave di Teseo, 2022), in cui Noam conversa con Andrea Moro, un allievo italiano dell’inner circle.
Il libro in verità non svela alcun segreto e non si occupa affatto di parole, ma è un’illustrazione a due voci delle idee di Chomsky e di quelle del suo allievo.
Ma quel che più colpisce è il fremito di concitazione encomiastica che lo percorre da cima a fondo, intrecciato con una curiosa vena profetica. La conversazione è infatti un ininterrotto scambio di cortesie, complimenti, esaltazioni di ciò che la “rivoluzione” portata da Chomsky ha prodotto e di ciò che potrà produrre in futuro. Nell’ultima pagina, Moro profetizza che «tra cinquecento anni» (sic), se potremo farci domande nuove in linguistica, lo dovremo alla «rivoluzionaria visione del linguaggio innescata da Noam Chomsky».
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