A 35 anni dalle Lezioni americane viene da chiedersi quali autori contemporanei facciano risuonare quelle cinque virtù. Lo scrittore pisano è il maggior indiziato nell’arte di sottrarre peso, con “il barrista” Massimo e i suoi terribili vecchietti
«Se volessi scegliere un simbolo augurale per l’affacciarsi al nuovo millennio, sceglierei questo: l’agile salto improvviso del poeta-filosofo che si solleva sulla pesantezza del mondo, dimostrando che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza, mentre quella che molti credono essere la vitalità dei tempi, rumorosa, aggressiva, scalpitante e rombante, appartiene al regno della morte, come un cimitero d’automobili arrugginite».
Scriveva così Italo Calvino nell’estate del 1985, poche settimane prima di spegnersi all’improvviso, in una delle cinque lezioni che era stato chiamato a tenere a Harvard, le prestigiose Norton Lectures.
Ribattezzate Lezioni americane nella prima edizione a stampa del 1988, le cinque conferenze continuano da allora a parlare a chiunque si interessi di letteratura, in pratica come in teoria, riproponendo i loro temi cardinali (leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità e molteplicità) con inesauribile attualità.
Calvino del resto sottotitolò l’opera in corso “memos for the next millennium”, memorandum per il prossimo millennio. A trentacinque anni di distanza dalla pubblicazione (e nel centesimo anniversario della nascita dell’autore) viene perciò da chiedersi cosa ne pensi il prossimo millennio, che è poi il nostro, che siamo noi, e come suonino quei cinque argomenti oggi, come li facciano suonare gli scrittori contemporanei. Chi li potrebbe incarnare con maggior precisione.
Elogio dell’agilità
Marco Malvaldi, autore toscano alla soglia del mezzo secolo con al suo attivo una quarantina di libri, per la maggior parte gialli umoristici, potrebbe essere un buon indiziato per la leggerezza: la capacità di “sottrarre peso” a una realtà sempre troppo grave, la determinazione ad alleggerire le ore del suo pubblico, che legge leggermente; magari a letto, come annota lo stesso autore nel suo romanzo più recente, La morra cinese, un ritorno all’amatissimo BarLume che, se possibile, pesa ancora meno dei precedenti. E questo, quando si scrive in serie, non è affatto facile.
Nel decimo volume dedicato al “barrista” Massimo e ai suoi terribili vecchietti, la vicenda gialla è talmente secondaria da apparire terziaria (battuta in tono con l’ambientazione burocratica): dal palazzo del comune di Pineta, una notte, cade un giovane. Incidente? Suicidio? Omicidio?
La vicequestore Alice, compagna di Massimo e da poco madre della loro irrequieta primogenita, non crede in automatico alla fatalità, perciò si mette a indagare (con molta calma: il morto viene annunciato solo a pagina 48 di 258).
Facendo il giro di conoscenti, contatti telefonici e ultimi incontri, finisce per mettere insieme un campionario umano molto vario e, al solito di Malvaldi, pittoresco: nobili decaduti con la passione per il giardinaggio “ad uso personale”, baroni della Normale con il vizio di soffiare scoperte scientifiche ai loro allievi, barboni che sbarcano il lunario smerciando funghi stregati, programmatori che sognano una carriera alternativa come cantanti di grotta…
Raccogliere le loro testimonianze non è facile, smascherarli richiede addirittura il ricorso a modelli matematici (Massimo prima di aprire il bar aveva studiato matematica ad alti livelli, un po’ come l’autore prima di iniziare a farci ridere con le sue storie aveva intrapreso una carriera da ricercatore di chimica).
Alla fine della storia, che vola via in un paio d’ore grazie al passo agile e a un fitto dialogato, l’enigma viene risolto, ma è quasi un dettaglio, perché al lettore interessa molto poco della vittima come dell’intrigo che l’ha portata alla morte.
Non si legge La morra cinese per stupirsi, provare brividi, scervellarsi e arrivare alla soluzione prima dell’investigatore. Si legge per leggere, tutto qui. Per passare il tempo, per spassarsela un po’ sfogliando pagine di carta (sì, vero, c’è l’ebook, ma con la qualità della carta Sellerio è un vero peccato affidarsi a freddi bit). Si legge senza peso, come voleva Calvino, e se di poesia ce n’è poca, di filosofia ne troviamo parecchia; una filosofia spiccia, quotidiana, declinata dai vecchietti sempre assisi al BarLume, curiosi e logorroici testimoni di un mondo che va a rotoli ma mai, comunque, si deve prendere sul serio.
Il coro
Portatori di una saggezza popolare e senza tempo, gli anziani componenti di questo inzittibile coro greco-pisano commentano, dichiarano, asseriscono, concionano, compendiano, suggeriscono e soprattutto agiscono, pur rimanendo perlopiù immobili.
Quando si spostano dalla loro sede prediletta, del resto, finiscono per combinare guai, ora con le concessioni di suolo pubblico, ora con i metodi per far addormentare una bambina testarda, e qui viene da chiedersi quale sia il pensiero di Malvaldi: erano meglio i vecchi metodi rispetto ai nuovi non-metodi? Era meglio agire con incoscienza anziché in coscienza?
La politica, fra l’altro, è un argomento ricorrente nella serie, e mai in modo qualunquista: sia nella scelta dei casi (La morra cinese parla di “usi civici” e impasse democratiche con una certa obliqua arguzia), sia e soprattutto nelle descrizioni del mondo circostante, che sembra sempre più un mondo-circo.
I clown, si sa, fanno ridere ma sempre a un passo dallo spleen (di nuovo Calvino: «La melanconia è la tristezza diventata leggera»), e mettono in scena assurdità per alludere a realtà che non si possono guardare dritte negli occhi (Perseo e la Medusa).
Non vogliamo insinuare che Malvaldi scriva apposta libri light per portare luce su determinate oscurità, anche se Il vento in scatola, commedia gialla ambientata in carcere per raccontare le prigioni italiane, alimenterebbe il sospetto.
Anche tenendo la barra ferma sul puro intrattenimento – parola sgradita che andrebbe riabilitata nelle lettere come è già successo al cinema e con le serie tv – La morra cinese segna diversi punti a favore dell’intelligenza: anzitutto con l’uso giocoso della lingua, sempre a rischio calembour (il pacco bimba, Normale vs. Comune, ok e ko); poi con le citazioni che, sottotraccia oppure esibite, non si fanno problema a scomodare persino Wilde, e gli spiragli su altre realtà, come la topologia o l’onnipresente calcio; infine con la forma stessa del romanzo, la cui struttura è disegnata a tavolino calibrando pesi e contrappesi (di nuovo questa metafora) in modo da far passare tutta la luce possibile senza che le pareti vetrate scoppino sotto il carico della struttura.
Il metodo Malvaldi
A conti fatti, sembra facile scrivere un libro che mette insieme una trama gialla, due sottotrame famigliari, tre filoni di indagine che raccontano pezzi di mondo diversissimi tra loro (la Normale, la Pubblica Amministrazione, lo sfruttamento turistico) e quattro vecchietti dal sarcasmo devastante.
Eppure ci riesce quasi solo Malvaldi, e in volumetti agili agili che non fanno in tempo a iniziare e già sono finiti, lasciandoci cosa? Non un messaggio, non una morale, non una rivoluzione linguistica, narrativa, culturale. No, la cosa più difficile: il buonumore. E di questi tempi (di tutti i tempi, in realtà) ce n’è bisogno eccome.
Non è un segno di epoche superficiali o barbariche, affidarsi al cozy crime di quando in quando. Non è uno scadimento dei gusti o una deriva commerciale. È qualcosa di antico, universale, che nella letteratura ha un suo spazio nobile, per Calvino addirittura «una funzione esistenziale: la ricerca della leggerezza come reazione al peso di vivere».
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