La fortuna di Twitter, sul finire del primo decennio del Duemila, derivò da un inaspettato protagonismo sulla scena del mondo: dalle proteste in Iran alle primavere arabe, da Occupy Wall Street alla Turchia. In un certo senso, sembrava che per raccontare il mondo, e per cercare di cambiarlo un poco, serviva essere lì: in quel microblog dove si potevano condividere notizie e opinioni in tempo reale. E dove si poteva costruire un dibattito culturale diverso, più partecipato e condiviso.

Poi il tempo ha cambiato sempre di più questa percezione. Ci si è accorti, innanzitutto, che non tutte le rivolte virtuali avevano lo stesso successo nel mondo reale. E poi c’è stato l’improvviso cambio di proprietà. Con Elon Musk Twitter è diventato X, e quello spazio popolato di dibattiti progressisti è stato inquinato da notizie false, opinioni estreme e dubbi sulla natura dell’algoritmo. Il risultato è che sempre più persone hanno deciso di andarsene, cercando rifugio in altre piattaforme o in una riscoperta della vita offline.

Così, anche le istituzioni culturali e gli intellettuali che si oppongono all’autoritarismo di Musk hanno iniziato a chiedersi se fosse il caso di restare. È meglio cercare di portare avanti un pensiero diverso, anche contro l’ostilità della piattaforma, o arrendersi all’evidenza che Twitter è morto per sempre? E poi soprattutto: non è utile stare lì dove stanno tutti, pur di vivere della propria scrittura?

Il fronte degli addii

La sensazione è che il “fronte degli addii” sia sempre più popolato, ma anche che questo non faccia troppo dispiacere a Elon Musk. In un certo senso, la volontà è proprio quella di proporre una cultura diversa e di indebolire l’establishment intellettuale che finora è stato dominante, dal suo punto di vista con effetti deleteri.

Verrebbe da pensare che le istituzioni culturali abbiano la forza per costruirsi un mondo nuovo, dove riprendere il dibattito virtuale, questa volta dall’opposizione e con un bersaglio ben evidente.

In realtà, sembra che al momento questo non stia succedendo. Piattaforme alternative, come Bluesky, stanno crescendo molto, ma sono ancora troppo di nicchia per ritenerle davvero rilevanti. Altri colossi tecnologici – come Meta di Mark Zuckerberg – si sono adeguati in fretta alla nuova ondata di trumpismo.

Il risultato è una maggiore frammentazione, minore potere, e un grande senso di smarrimento. I più ottimisti pensano che questo porterà a una riscoperta di un modo diverso di fare cultura, di nuovo più analogico, dopo che per anni si è sostenuto esattamente il contrario. Ma siamo sicuri che non sia solo un’utopia?

Gli scrittori

Fra chi ha lasciato X, uno dei capostipiti è Stephen King, scrittore popolarissimo e ben abituato ad avere a che fare con i mostri. Fino a poco tempo fa, si concedeva il piacere di twittare sui fatti del mondo, oltre che sui suoi libri (essendo ancora particolarmente prolifico). Poi lo scorso autunno ha annunciato l’addio, dicendo che ormai l’atmosfera su X si era fatta troppo tossica. Salvo poi tornare all’improvviso, quest’oggi, per concedersi il piacere di insultare Trump. Per ora è difficile capire se ha cambiato idea e ha deciso di tornare, o se è solo un passaggio estemporaneo.

Ovviamente per uno scrittore del suo calibro e della sua storia, che scala le classifiche anche con i libri meno riusciti, semmai anche la decisione di andarsene può essere presa a cuore più leggero. Ma cosa succede, invece, per quegli scrittori un po’ meno noti? Quelli che dovrebbero costruirsi una presenza online per sperare di vendere qualche libro in più, o almeno così vorrebbero (e con delle ragioni) i loro agenti letterari o le case editrici.

È esattamente questo il dibattito che si sta facendo, pure in Italia. Scrivendo sul Foglio, l’autore Giulio Silvano – traduttore, intellettuale e giornalista culturale – ha detto chiaramente che forse è tempo di levare le tende dai social: «Abbandonare i social può apparire come un suicidio di immagine, ma non se lo si fa tutti insieme. Quanti amici ci dicono: “Lascerei Facebook se solo non mi servisse perché ci sono tutti…”. È lì che “si esiste”. Perché allora non invitare tutti ad andarsene?»

«Scrittori e scrittrici, editor, traduttori e traduttrici, recensori e presentatori di libri, tutti uniti, tutti insieme fuori dai social. Uscire dalla dittatura dell’algoritmo e dei follower, detronizzare booktoker ed endorsement di amici con la spunta blu, e riabbracciare delle dinamiche di potere che oggi ci appaiono antiquate (senza però cadere nella miticizzazione del passato, di un’editoria gloriosa del Dopoguerra che aveva comunque le sue pecche, come ogni industria)».

EPA

Allo stesso modo, Paolo Di Stefano – scrittore, giornalista culturale e critico letterario – ha scritto sul Corriere della Sera che la dittatura dei social «ha effetti noti: da una parte gli editori inseguono i nomi più seguiti sui social (da qui gli influencer bestseller). Dall’altra, molti scrittori impegnano le loro giornate nell’autopromozione cercando di conquistare il massimo di mi-piace. Un esodo di massa da X, da Facebook, da Instagram avrebbe il vantaggio di assumere, in questo momento, un valore più solidamente engagé sfruttando lo sdegno generale per la svolta trumpiana dei tycoon digitali».

Antonio Gurrado, pure lui sul Foglio, ha sottolineato che per gli scrittori i social rappresentano semplicemente «il target sbagliato: gente abituata a pretendere un flusso continuo di contenuti senza dare nulla in cambio». (…)

«La matematica lo conferma. Se a una maggiore presenza degli scrittori sui social corrispondesse un incremento del numero dei lettori, allora le complessive vendite dei libri sarebbero aumentate; i nuovi dati dell’Aie dimostrano invece il contrario, forse anche a causa di questa saturazione», spiega Gurrado. «La smania di esprimersi gratuitamente, saltando la mediazione editoriale e cercando il facile plauso della folla anonima, danneggia non solo il portafoglio dello scrittore ma anche il suo ruolo».

E gli altri

Eppure, la tentazione di avere un palco con una platea così ampia rimane forte, soprattutto in un periodo in cui farsi notare – se si ha qualcosa da dire – non è affatto semplice.

Ma questo aspetto non riguarda solo gli scrittori. Durante il festival di Sanremo, diversi cantanti hanno deciso di essere più presenti su X, come parte di una più ampia strategia di promozione delle loro canzoni. Non sempre è stata una decisione neutrale: basta guardare la cantante Clara, per esempio, che ha deciso di assecondare alcuni trend un po’ squallidi sul suo aspetto fisico.

In fondo esistono manuali di social media management che spiegano come sia importante adattare il proprio linguaggio alla piattaforma alla quale ci si rivolge, se si vuole essere influenti. Restare su X significa dunque adattarsi al linguaggio di Elon Musk?

Non tutti lo vogliono fare. Ogni giorno si allunga la lista di cantanti, autori, istituzioni culturali e lavoratori dello spettacolo che stanno abbandonando i social, in modo programmatico: come a dire, visto che non è più un mistero che l’abuso di digitale ha effetti negativi, perché non torniamo a una vita più analogica?

Il problema è capire se basta una scossa così forte, come il ritorno di Donald Trump, per causare una reazione così forte, apparentemente fuori dal tempo. E se fosse invece un modo per annacquare ulteriormente il contropotere della cultura?

Opporsi

Resta il fatto che molte realtà culturali abbiano deciso di fare una scelta di campo con un preciso intento politico. L’istituto Alcide Cervi, per esempio, ha rinunciato a Starlink, la tecnologia di Elon Musk basata sull’uso dei satelliti che aveva permesso loro di risolvere i problemi di connessione: «Questo servizio continua ad essere conveniente ed avanzato, ed è probabile lo sia ancora di più in futuro», hanno scritto in una nota.

«Ma il punto non è questo. Il punto è che quando un imprenditore di talento legato alla tecnologia che offre diventa un agente politico manifesto, invadendo in senso contrario ogni campo dei valori irrinunciabili che la nostra istituzione rappresenta e promuove, è doveroso interrogarsi».

E ancora: «Tutti potranno continuare a trovare l’Istituto Cervi dalla parte giusta del confine, simbolico e sostanziale, tra democrazia e un ordine nuovo nella testa e nelle mani di pochi, quelli sbagliati».

La stessa ferrea opposizione è stata fatta da realtà culturale in tutto il mondo. Circa 60 università e istituzioni accademiche in Germania e in Austria hanno aderito all'iniziativa #WissXit, ritirandosi da X per contrastare la diffusione di contenuti populisti di estrema destra e disinformazione. Tra queste, la Freie Universität Berlin, l'Università di Heidelberg e l'Università RWTH di Aquisgrana. Lo stesso è accaduto nel Regno Unito, per esempio con le università di Cambridge, Oxford e il Merton College. E poi ancora: associazioni, festival, musei, artisti, cantanti, scrittori, attori, …

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