Esce in libreria il nuovo libro di Selvaggia Lucarelli, Crepacuore – storia di una dipendenza affettiva (Rizzoli), «l’incontro tra un uomo che non vede nulla oltre se stesso e una donna che non vede nulla oltre lui». Nel libro, come nel podcast Proprio a me, c’è il punto di vista della vittima delle dipendenze affettive. In questa intervista, Selvaggia Lucarelli racconta quello del manipolatore in una di queste relazioni malate.
«Non voglio più relazioni, mi sono messo in pausa da lungo tempo». Quando ho visto l’incipit della mail di Gianpaolo ho creduto di leggere una delle centinaia di testimonianze di persone che avevano attraversato una storia di dipendenza affettiva (dopo che ho raccontato la mia in un podcast, Proprio a me), nel ruolo delle “vittime”. Di chi ha elemosinato amore in storie fatte di ossessioni e ferite irrisolte, in cui soccombe il più debole e il manipolatore è pronto a ripetere lo stesso schema con la preda successiva. Sbagliavo.
La mail continuava così: «Ho capito che sono così e non cambierò mai, in tutte le relazioni che ho vissuto ho manipolato l’altra. Dopo l’ultima ho detto basta. So che lo rifarò, sono un animale che fiuta la preda e non può fare a meno di azzannarla, per cui mi sono chiuso in una gabbia di solitudine per non nuocere più a nessuno».
Capita raramente che un manipolatore riconosca il suo problema e succede di rado perché riconosce il proprio limite, sarebbe un’intollerabile ammissione di fragilità. Chiedo a Gianpaolo se ha voglia di raccontarmi attraverso quali vicende è arrivato a questa conclusione e lui premette subito «ti descrivo il mio cimitero, sono un disperato anche io, solo che giustamente non faccio pena a nessuno, neppure a me stesso».
Da dove partiamo?
Non so se la mia storia familiare mi ha condizionato, fatto sta che mio padre è morto che io ero alle elementari e mi ha cresciuto mia nonna, mia madre lavorava giorno e notte. Un nonna anaffettiva, che manipolava tutti.
In che modo?
Quando non riusciva a portarti sulla sua strada, era di un vittimismo così teatrale che ho ancora davanti a me la fotografia di quando un giorno- stavamo passeggiando- mia madre disse che lei mi aveva vestito male per andare a scuola e mia nonna minacciò di buttarsi sotto a un tram. Mia madre la tirava per la manica, fu uno shock. Ricattava tutti emotivamente, sempre.
Hai adottato lo stesso schema nelle tue relazioni?
Non mi piace fare della psicanalisi per principianti, ma ho sempre sentito parlare di relazioni come di qualcosa da cui prendere. E ho visto in che modo mia nonna piegava psicologicamente gli altri.
Quando hai capito di essere un manipolatore affettivo?
Con la mia penultima storia. Prima lo sono stato nella totale inconsapevolezza della mia crudeltà.
Ovvero?
La prima fidanzata vera l’ho conosciuta all’università. Studiava medicina, era una studentessa tanto brava quanto fragile. Da ragazzina aveva sofferto di disturbi alimentari, il padre era un famoso primario, suo nonno anche era stato un luminare della chirurgia. Su di lei c’erano tantissime aspettative. Io invece ero uno studente mediocre e odiavo questa disparità.
Cioè?
Ero più sicuro di lei, avevo più amici di lei ed ero più bello di lei, potevo dominarla in ogni campo, ma nello studio lei non solo era più in gamba di me, ma era stimata, aveva spazi suoi, consensi. Non potevo primeggiare e provavo rancore, era colpa sua.
Non hai pensato di essere tu il problema e non lei?
No, ho pensato che l’unico modo per arginare questa mia rabbia fosse fare un figlio, sposarci, tarparle le ali, cosa che comunque già facevo da tempo dicendole che tanto avrebbe fatto carriera per il suo cognome, che non aveva avuto le palle di trovarsi una sua identità, sminuendola.
Come è finita?
Che lei ha lasciato medicina e abbiamo avuto un figlio, fortemente osteggiati dalla sua famiglia. Non ci siamo sposati perché la convivenza era un inferno, lei era ripiombata nella bulimia e io anni dopo ho conosciuto un’altra donna.
Un’altra preda facile?
Tutt’altro. Era la bellissima capo area di una famosa azienda, divorziata, due figli. L’ho vista e mi sono detto che con lei sarebbe stato tutto facile.
Perchè?
Perché ero in una fase della vita diversa, avevo un bel lavoro, non avrei provato senso di inferiorità.
Invece?
Invece volevo distruggerla. Intendiamoci, non è che me ne rendessi conto, ma la sua indipendenza mi spaventava. Se doveva partire per lavoro io cercavo una lite pretestuosa il giorno prima, la lasciavo, così lei si disperava e restava. Aveva un collaboratore di cui ero geloso, l’ho convinta del fatto che fosse un mediocre perché lo licenziasse. I figli erano un ulteriore ostacolo perché portavano via tempo alla nostra relazione, la rimproveravo quindi di essere distratta e incapace, col figlio più grande siamo entrati in conflitto perché lui la proteggeva e io ho finito per vederlo come un rivale. Li mettevo tutti contro.
Ma lei non si ribellava?
No, lei aveva il terrore di perdermi e io lo sapevo. Usciva da un matrimonio con un marito maltrattante, io le davo della cretina per essersi fatta mettere le mani addosso per anni da un uomo che faceva l’operaio e aveva la terza media, non mi rendevo conto che mi aveva scelto perché era una dipendente affettiva e io ero come il marito, solo che la maltrattavo psicologicamente.
Quindi lei sembrava una donna risoluta sul lavoro, ma nella sfera privata era fragilissima.
Esatto. Alla fine però la stavo portando a perdere anche il lavoro, perché la verità è che io volevo che fosse solo a mia disposizione.
Non ti chiedevi perché?
E’ difficile da spiegare, ma provavo rabbia se lei era felice per qualcosa che non proveniva da me. I suoi spazi erano spazio che lei toglieva a me. Qualsiasi cosa fosse solo sua- da un’uscita con le amiche o una nuova auto scelta senza consultarmi- per me era un affronto. Tipo: “Come osi esistere senza di me?”-
Non vivevi bene neppure tu.
No, ma io davo la colpa a lei. Questa rabbia che mi saliva ogni volta che lei sfuggiva al mio controllo anche in cose minime, la riversavo sulla mia compagna. Le dicevo che aveva un lavoro di merda, che i suoi figli erano due superficiali, che era vecchia, che aveva fatto carriera chissà come, che il figlio più piccolo era scemo come il padre, che il grande la odiava.
E lei?
Alla fine piangeva sempre.
E non ti dispiaceva?
No. Mi faceva ancora più rabbia. Le dicevo “ammazzati”. Poi sentivo che qualcosa si placava dentro di me e correvo ai ripari.
Ovvero?
Sapevo come farmi perdonare. Ed ero convinto che sarebbe stata l’ultima volta, quando promettevo.
Ma tu ti innamoravi?
Mi sono documentato molto sulle dipendenze affettive e dovrei risponderti di no, credo. Se vuoi distruggere una persona e farla diventare un tuo arto non è amore, l’ho capito, però io dipendevo da lei quanto lei da me. Quando dicevo “ora ti lascio” mentivo. Volevo solo vederla disperata per me. Volevo essere rassicurato del fatto che lei sarebbe “morta” senza di me.
Funzionava sempre?
Sempre, tranne una volta, per un funerale.
Cioè?
Le era morta la madre, lei doveva stare tre giorni nella sua città d’origine al sud, per sbrigare pratiche e funerale. Io non potevo seguirla. Andava il suo ex marito, c’erano i figli, io ero incastrato a Roma.
Quindi?
L’ho colpevolizzata perché andava senza di me.
Una follia.
Sì, e lei alla fine avrebbe anche ceduto se sua sorella non l’avesse minacciata di non parlarle mai più. Gliel’ho fatta pagare: non le ho risposto al telefono per tre giorni. Lei seppelliva sua madre e nel frattempo mi mandava Whatsapp disperati.
E questo ti faceva stare bene?
Sì, ne godevo. La sua disperazione mi tranquillizzava.
Perché è finita?
Perché lei voleva un figlio e per me era la conferma che l’avevo catturata definitivamente. Dopo un anno circa mi ha scritto una mail lunghissima, aveva cominciato ad andare da una psicologa, mi spiegò che ero un manipolatore e che mi aveva perdonato, ma mi suggeriva di curarmi perché le avevo massacrato la vita e forse l’avevo fatto che con altre.
E tu?
Mi sono detto “cazzate”. Poi ho conosciuto Silvia, e ho capito subito che stavo ripetendo gli schemi delle volte precedenti.
Cioè?
Silvia era una donna meravigliosa, più giovane di me, e io stavo cercando di toglierle tutto. Ho ripensato al funerale, «eri geloso perfino delle lacrime per mia madre», mi aveva scritto la mia ex. Dopo sei mesi di relazione mi sono strappato la carne e l’ho lasciata.
Dicendo?
Che sono un predatore e nessuno mi toglierà mai la mia vera natura. Posso solo rimanere il più possibile lontano dalla foresta, per non uccidere.
Perché rifiuti l’aiuto di uno psicologo?
Ho fatto quattro sedute, mi sono reso conto che stavo manipolando anche lui.
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