In uno spot parodia di quasi quindici anni fa Marion Cottilard presentava Forehead Tittaes by Janae, un paio di seni facilmente applicabili sulla fronte di ogni donna capaci di restituire al loro volto lo sguardo degli uomini spesso – per non dire sempre – distratti dal décolleté delle donne con cui parlano.

L’ironia dello spot girato da Jake Szymanski si soffermava sulla pesantezza di uno sguardo ritenuto ovvio e naturale degli uomini sul seno delle donne, sguardo che si esplicita nei secoli a partire dalla nascita del corsetto che aveva come principale obiettivo quello di restringere fianchi e addome per spingere (non di rado dolorosamente) il seno all’insù, rendendolo così visibile e appariscente.

Difficile datare la sua apparizione nell’abbigliamento femminile tanto più che già nella civiltà minoica si hanno evidenze di un uso di simili attrezzi di tortura. Si sa che Caterina de’ Medici è stata la prima donna diciamo nota a imporlo nel 1500 alla Corte di Francia nella sua forma allungata. Seguiranno variazioni infinite attorno alla moda e allo stile del corsetto, tutte o quasi oggi conservate nei più importanti musei di costume e moda, anche se più che allo stile i corsetti afferiscono all’ambito della contenzione quali veri e propri oggetti di limitazione del corpo umano al pari della camicia di forza.

Seguirà infatti al corsetto addirittura un busto che avrà il compito esplicito oltre che di esporre il seno di disumanizzare quasi del tutto il corpo femminile impossibilitandolo ai più banali movimenti quotidiani. Uno mero corpo da esposizione all’interno di quella ambigua e perversa visione del femminile che associa all’adorazione una dichiarata volontà di violenza e di possesso. E non è di moda per l’appunto che scrive la storica dell’arte tedesca Anja Zimmermann con Il seno (Bollati Boringhieri, traduzione di Silvia Albesano), una storia culturale attorno a quello che viene definito come un «tratto sessuale secondario».

Attraversato da uno sguardo maschile preminente e al tempo stesso ambiguo, il seno diviene il luogo di caduta più evidente di una forma di potere e insieme di organizzazione sociale prettamente patriarcale che sul seno rivela tutta la sua inadeguatezza ad accogliere e a comprendere una diversità e al tempo stesso un’uguaglianza di condizioni. Nel momento in cui a dominare è uno sguardo solo si verificano situazioni al tempo stesso ridicole quanto dolorose per chi è costretto a subirle, come avvenne nella calda estate del 2021, in cui, come riportato da Zimmerman, un uomo e una donna prima di sdraiarsi al sole sull’erba di un parco si tolsero entrambi la maglietta restando a petto nudo. La vigilanza impose alla sola donna di rivestirsi avvertendo che quella non era un’area per nudisti (!).

Questo fatto portò, per il rifiuto da parte della donna a rivestirsi, a una denuncia e a un processo che la donna vinse. A quel punto a Berlino le regole sul “decoro” furono così profondamente riviste in senso più paritario e inclusivo. Questo non è che un piccolo esempio di come il seno femminile viva all’interno di una tensione e di un’ambiguità: oggetto primario dell’allattamento materno, ma anche simbolo di lussuria al punto che la Luxuria è raffigurata nell’arte medievale nell’atto di maltrattare orribilmente i propri seni.

La serpe e la Madonna

Il seno nudo è infatti spesso raffigurato anticamente come tentazione del male, la serpe allattata al seno o in forma di adorazione come nel caso dell’allattamento della Madonna. La modernità porta a una frattura perché dal seno nudo ed esposto si passa a un seno vestito, ma in modo che si evidenzi sempre la sua forma pur lasciandolo coperto. Un’ambiguità decisamente codina che mostra da un lato l’infantilismo maschile, ma anche la sua gestione del potere tra tatticismi e apparenti strategie che appaiono più che altro come un rimosso psicanalitico.

Tanto che nel 2019 ci si ritrova all’interno della tragedia migratoria ad avere come principale elemento di discussione pubblica la presunta mancanza di rispetto istituzionale da parte di Carola Rackete, comandante tedesca della nave Sea-Watch 3 che si presentò in tribunale senza reggiseno. Segno di un’evidente arretratezza che vive non solo nelle dinamiche sociali, ma anche negli studi culturali, tanto che attorno al seno e alla vulva – come scrive sempre Anja Zimmermann – i primi studi approfonditi compaiono solo a partire dai primi anni duemila.

Dimostrazione quanto mai evidente di una totale mancanza di consapevolezza di quello che si è fatto del corpo femminile e del suo uso da parte di chi si è ritenuto proprietario assoluto o peggio ancora destinatario privilegiato in quanto uomo. Resta così come contraltare la possibilità irriducibile di disturbo da parte del seno femminile che va a rivelare quella visione violenta di uso e di consumo del corpo femminile mostrandone potenzialità enormemente nascoste da secoli di corsetto e busti.

Se solo negli anni Trenta il reggiseno diviene un oggetto di abbigliamento diffuso – grazie anche alla SH Camp and Company di Jackson in Michigan, la prima azienda produttrice di reggiseni capace di definire una correlazione alfabetica tra misura e peso del seno, già alla fine degli anni Sessanta si assiste al falò degli stessi.

Il mercato

Una liberazione che in parte fu più simbolica che altro – ad oggi il mercato dei reggiseni è tra i più floridi al mondo con fatturati impressionanti –, ma che mise un punto chiaro ed efficace sulla libertà del sé femminile di gestire il proprio corpo. «Il seno sembra innocuo eppure lancia provocazioni», avverte Anja Zimmerman che prosegue: «È multifunzionale e polisemico, e nel corso della storia è stato considerato, tra le altre cose, peccaminoso, attraente, sacro, liberatorio, ripugnante o eroico. Il suo potenziale di disturbo è evidente: perché da un lato è considerato l’incarnazione della femminilità, e dunque emblema della differenza di genere, e dall’altro sovverte attribuzioni chiare. Il seno è quindi fonte di scompiglio».

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Un tratto umano, non un oggetto

Nella stessa protesta politica, come ad esempio fatto dal movimento femminista di protesta ucraino delle Femen, la nudità del seno resta infatti un elemento di forte scompiglio e radicalizzazione. Un gesto apparentemente innocuo come mostrare un seno nudo diviene così capace di scatenare reazioni irrazionali quanto violente. Svelare il seno, liberarlo dalla presunta ambiguità di una scollatura necessariamente seducente, lo rende, nella sua naturalezza, incontrollabile allo sguardo.

Nella piazza pubblica la nudità del seno sfugge dall’obbligo millenario del tinello e alla figura retorica dell’angelo del focolare, per divenire non solo pienamente libero, ma interprete di un portato politico simbolico irriducibile. Non più l’oggetto disumanizzato di un desiderio privato e nascosto e come tale di proprietà altrui, ma l’evidente segno di un tratto umano inscindibile dalla personalità femminile.

Anja Zimmermann offre un contributo fondamentale alla storia culturale del seno e alla sua elaborazione e di come sia stato veicolo di oppressione e repressione sia sociale che sentimentale e sessuale. In un paese come l’Italia che ha istituzionalizzato la categoria delle maggiorate con un riferimento quanto mai esplicito alle misure del seno e che attorno al corpo delle attrici ha costruito, in alcuni casi anche ingenuamente, una fortunata commedia e un’insostenibile – soprattutto nella sua volgarità – comicità, andrebbero fatti i conti con le conseguenze di un dettato di costume che porta oggi in dote un numero spropositato di femminicidi.

Una cultura che fece (e spesso ancora purtroppo fa) ridere e che cova invece violenza e aggressività, frutto di un’idea di possesso che ridicolmente più volte viene giustificata con l’amore per la mamma. La mamma che tutto comprende e al cui seno tutto si risolve. Alzare lo sguardo dal seno femminile alla donna significa abbandonare una cultura che ha fatto il suo tempo e in quel tempo danni enormi trovando finalmente il coraggio di guardare negli occhi e ascoltare chi ci sta parlando. 

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