Nel suo ultimo libro bell hooks ci racconta che cosa ha significato nella sua vita il paesaggio del Kentucky, dove è nata. La dialettica tra spaesamento e quello che, con il neologismo di Ernesto De Martino, possiamo chiamare “appaesamento” appartiene sempre alla nostra esperienza dei luoghi
Un film del regista tedesco Edgar Reitz, di qualche anno fa, si intitola Heimat, che vuol dire “patria”, ma nel senso di terra natale, familiare. Il film, articolato in undici episodi per ore e ore di proiezione, racconta la storia di una famiglia tedesca dalla fine della Prima guerra mondiale fino agli anni Settanta.
La racconta, però, non dal punto di vista degli avvenimenti storici, di cui al massimo si sente l’eco lontana, ma attraverso il rapporto con i luoghi in cui la famiglia, di origine contadina, si trova a vivere. E infatti la zona dove il film è ambientato, una regione collinosa della valle del Reno, tra Magonza e Coblenza, è diventata nota e meta di turismo grazie al film, tanto è centrale nella narrazione.
Nella prima sequenza vediamo Paul, che torna a casa dalla prigionia, a piedi, e man mano che si avvicina al paese, e scorge il campanile, le prime case, capiamo che forse per la prima volta vede veramente quel paesaggio, lo scopre suo, si sente a casa. È come se il regista volesse dirci che, se per un tedesco identificarsi con la storia del proprio paese è difficile, perché quella storia è carica di tragedia e di ingiustizia, gli rimane la possibilità di identificarsi con i luoghi, con il paesaggio: lo Spazio, piuttosto che il Tempo.
Sentirsi a casa in un luogo
Il film mi è tornato in mente leggendo il libro di bell hooks (iniziali rigorosamente minuscole, perché così ha voluto l’autrice, una delle protagoniste della cultura femminista e antirazzista, scomparsa due anni fa) Sentirsi a casa. Una cultura dei luoghi, appena tradotto in italiano da Meltemi.
Infatti, al di là delle moltissime differenze, nel libro assistiamo a una movenza molto simile. Nella impossibilità di identificarsi con la storia del proprio paese, che per lei, nera e di umili origini, è una storia di segregazione, di violenze e di emarginazione, bell hooks può però sentire di appartenere a certi luoghi, a un paesaggio. Non per nulla, nell’originale il titolo suonava proprio così: Belonging, appartenenza.
Non potendo riconoscersi in un nucleo spirituale storico, l’autrice sceglie di averne uno geografico, e solo in un luogo amato può riuscire a percepire la consonanza, il senso di un intreccio vitale tra sé e il mondo.
È lo spazio, sono i luoghi ad averla plasmata. Fin da bambina, ha scoperto che ad essere estranei potevano essere gli uomini, non la natura: «Vivevo in una natura selvaggia, fatta di caprifogli, asparagi selvatici e alberi sotto i quali trovavo rifugio».
Il paesaggio nel quale sentirsi a casa è infatti, in primo luogo, il paesaggio dell’infanzia. Per bell hooks, che anche qui, come in molti altri suoi lavori, intreccia autobiografia e riflessione teorica, è il paesaggio del Kentucky, dove è nata e dove i suoi genitori e la bisnonna (della quale ha voluto prendere il nome, all’anagrafe era nata Gloria Jean Watkins) hanno sempre vissuto.
E Kentucky vuol dire cavalli e tabacco, vuol dire uno stato agricolo ai confini del sud, vuol dire i monti Appalachi e le pianure coltivate. O almeno ha voluto dirlo per l’autrice: oggi il tabacco si coltiva assai meno, e alcune montagne sono state saccheggiate da nuove e devastanti tecniche minerarie: le cime vengono fatte saltare in modo che i giacimenti di carbone possano essere coltivati a cielo aperto. Così si distrugge un paesaggio, e contro questi scempi bell hooks si è mobilitata in passato.
Nel Kentucky l’autrice è tornata a vivere negli ultimi anni della sua vita, dopo essersene allontanata, adolescente, per andare a studiare a Stanford, in California, e dopo aver vissuto in diverse grandi città degli Stati Uniti, inclusa New York.
Per un verso, questo ha significato per bell hooks incontrare ambienti più progressisti, allontanarsi da contesti arretrati in cui l’esperienza della segregazione razziale si faceva ancora sentire, e molto; per un altro verso, però, ha voluto dire fronteggiare altre forme di discriminazione, razziali e di genere, meno eclatanti ma forse più subdole.
Con la sua sensibilità per gli spazi, per esempio, bell hooks nota come i fenomeni di gentrificazione nelle città (quei processi per cui quartieri periferici o marginali vengono eletti a nuovo domicilio da parte di categorie socialmente emergenti, causando l’espulsione degli abitanti originariamente insediati) ripropongano in maniera più soft processi di ghettizzazione.
Soprattutto, però, vivere a San Francisco o a Manhattan ha significato uno strappo con le proprie origini, e condannarsi a una perenne sensazione di sradicamento.
Pur vivendo una situazione relativamente privilegiata (bell hooks ha insegnato in prestigiose università americane ed è stata un punto di riferimento del movimento femminista, anche all’estero), l’autrice ricorda di essersi sentita spesso come quei neri che, negli anni della grande industrializzazione, hanno abbandonato gli stati agricoli del sud (da dove proviene la stragrande maggioranza della popolazione nera) per andare a lavorare negli stati del nord, fino a quando, scrive, «l’anelito della guarigione non mi ha ricondotto alle colline della mia infanzia, ai paesaggi rurali che mi erano familiari».
Spaesamento e appaesamento
Al di là di tutte le sue particolarità, il ruolo che il paesaggio gioca nella narrazione di hooks non deve sorprenderci, perché individua alcuni dei caratteri di ogni esperienza paesaggistica. Il rapporto di appartenenza che proviamo nei luoghi dove abbiamo trascorso la nostra infanzia difficilmente lo proveremo altrove.
E non è solo questione di affettività se, nelle classifiche dei “luoghi del cuore”, periodicamente promosse dal Fai, i luoghi familiari la fanno spesso da padroni. Forse troviamo qui una delle origini dello stesso sguardo paesaggistico.
La dimensione affettiva e biografica appartiene fin dalle origini alla nostra nozione di paesaggio. Si dice spesso che il primo documento di uno sguardo estetico sul paesaggio, in occidente, è rappresentato dalla descrizione che Petrarca fece della sua ascensione sul Monte Ventoso, nel sud della Francia.
Il poeta riferisce lo stupore che un’impresa del genere, intrapresa senza nessuno scopo pratico se non quello di vedere una montagna celebre per la sua altezza e di ammirare uno spettacolo grandioso, suscita nei contemporanei.
Ma poi aggiunge che da molti anni si era proposto quella escursione, perché, avendo abitato nella regione fin dall’infanzia (bambino, aveva seguito il padre alla corte del papa in esilio ad Avignone) «quel monte gli era stato sempre negli occhi».
Sembra proprio che, come nella biografia di hooks, il nostro rapporto col paesaggio si muova sempre tra i due poli dell’estraneità e dell’appartenenza, dello spaesamento e di quello che, con un neologismo coniato dal grande antropologo Ernesto De Martino, possiamo chiamare “appaesamento”, cioè appunto il sentirsi a casa nei luoghi.
Appaesamento e spaesamento sono come la sistole e la diastole del nostro rapporto col paesaggio. E un recente libro di un giovane filosofo, Paolo Furia (Spaesamento. Esperienza storico-geografica, ancora da Meltemi), che tra l’altro si apre proprio con una rievocazione del loughi dell’infanzia piemontese dell’autore, ci aiuta capire come i due fenomeni siano strettamente intrecciati e dall’uno possa nascere l’altro.
Pensiamo all’esperienza del viaggio, che può darci uno spaesamento piacevole e solleticante, ma anche disturbante e minaccioso (e un’esperienza di questo secondo tipo, ahimè vissuta in Italia, fa riferimento hooks in un passo del suo libro), o a quella dell’emigrazione.
Ma pensiamo, soprattutto, a quei casi in cui lo spaesamento è il risultato, non tanto delle catastrofi naturali, ma delle scelte poco sensate di ricostruzioni out of place che le hanno seguite. L’esperienza recente di dislocazione di intere comunità dopo terremoti e frane, da Gibellina dopo il terremoto del Belice, a Cavallerizza di Cerzeto, in Calabria, dopo la frana che l’ha colpita, o ancora all’esperienza fallimentare della New Town dell’Aquila mostrano quanto sia difficile per una comunità sentirsi a casa in un luogo, magari vicinissimo ma diverso da quello nel quale si è cresciuti, e questo indipendentemente dagli sforzi talora notevoli, da parte di architetti e artisti, per ricostruire un tessuto urbano vivibile.
Troppe persone, in questi casi, si sono sentiti come bell hooks dice di essersi sentita allontanandosi dal suo Kentucky: «Esiliata lontano dall’unico luogo dove avevo sentito un vero senso di appartenenza».
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