simboli e integrazione
Senza paprika, niente cucina ungherese. Ma come ha fatto questa spezia, nipote del peperoncino che gli spagnoli portarono in Europa dall’America latina nell’ultima decade del 1400 a diventare l’ingrediente identitario di un paese dell’Europa orientale?
La storia del peperoncino, e di come è diventato paprika, è una di quelle che ci illustrano in modo esemplare quanto il mondo delle piante sia stato modificato e manipolato dall’azione umana, creando nuove tipologie che a loro volta caratterizzano i luoghi in cui sono state messe a punto.
Una lunga storia
Per partire dall’inizio, bisogna dire che quando Cristoforo Colombo arrivò sull’isola di Hispaniola, e assaggiò un peperoncino, sulle prime credette di aver assaggiato del pepe fresco.
Il che spiega per quale motivo si dica pepe, peperone e peperoncino, unendo almeno nel linguaggio due tipi di piante – quella del piper nigrum a quella dei vari capsicuum – che non sono per niente della stessa famiglia. Inizialmente, il peperoncino era stato addomesticato in quelli che sono oggi il Messico, il Perù, la Bolivia e parti dell’Amazzonia, per aggiungerlo agli alimenti.
Arrivato in Europa, invece, il nostro capsicuum venne inizialmente utilizzato come pianta decorativa, fin quando i portoghesi decisero che aggiungeva una piacevole piccantezza. Ma prima che arrivasse in Ungheria si è dovuto aspettare ancora più di un secolo, e lo sviluppo di diverse tipologie di peperoncino.
Non furono però gli ungheresi a decidere che questa pianta così rossa avrebbe dato ai loro piatti un guasto speciale, bensì gli ottomani – che, sotto Suleyman il Magnifico (1494-1566) conquistarono l’Ungheria. Di nuovo, dapprima la pianta dai frutti rossi ed allungati venne utilizzata come elemento decorativo nei giardini – poi, in due città del sud, vicino alla Serbia, la paprika un po’ per volta divenne quella che conosciamo oggi.
Le città sono Kalocsa e Szeged, godono di un clima che consente la perfetta coltivazione dei peperoncini, ed entrambe hanno un museo della paprika – un po’ turistici, ma pazienza. A Szeged, la paprikamania non è così antica: si diffuse infatti solo dopo le terribili inondazioni che distrussero la città nel 1879, quando l’Ungheria era parte dell’impero Austro-ungarico.
L’imperatore Franz Josef, che si recò sul posto per valutare i danni e mostrarsi vicino alla popolazione colpita, promise che la città sarebbe stata costruita più bella di prima, e dopo quattro anni, tornò sul luogo per verificare i miglioramenti. In questa occasione venne portato ad un mulino dove i peperoncini di paprika essiccati venivano macinati. E da lì, un Franz Josef colpito dal gusto piccante richiese che venissero portati rifornimenti regolari di paprika alla corte di Vienna. Un siparietto imperiale che portò la città a identificarsi con la paprika, prima ancora del resto del paese.
La svolta
Ma la svolta decisiva fu più tardi, nel 1930, di nuovo a Szeged, dato che la paprika valse all’Ungheria un premio Nobel. Il primo biochimico dell’università di Szeged, Albert Szent-Györgyi, infatti, nel corso delle sue ricerche sullo scorbuto, proprio quell’anno riuscì ad isolare la vitamina C nella paprika (c’è più vitamina C nella paprika che nel limone, ma si perde con la cottura).
La scoperta di tali proprietà medicinali nel peperoncino fece crescere le vendite a dismisura, portando anche al triplicare delle esportazioni verso gli Stati Uniti, che fino a quel momento erano soprattutto destinate alla comunità magiara in America (riportando dunque nelle Americhe una versione modificata di quello che Colombo aveva preso proprio da questo continente).
Nel 1937, la Reale Accademia di Svezia decise dunque di insignire Szent-Györgyi del suo massimo premio, mentre questi continuava le sue ricerche sugli effetti della carenza di vitamina C sui muscoli e altre parti del corpo umano.
Ricette e sfumature
Oggi, la paprika è onnipresente: nei piatti più famosi, dal gulasch al pollo paprikash agli stufati, di carne o di pesce che siano, o nel lecsò, vegetariano – ma si trova anche in mille altre preparazioni, e come immancabile pizzico di rosso che aggiunge un tocco di colore ai cibi più disparati.
Nei negozi di alimentari ungheresi ci sono interi scaffali dove sono messi in mostra diversi tipi di paprika, suddivisi negli otto diversi tipi, da quello standard, chiamato paprika dolce o édesnemes, a quello più piccante e forte, detto erős, rispetto al quale esiste il detto che “la paprika migliore ti brucia due volte”, passando per quelli più aromatici come il rózsa (che era quello dato a Franz Josef, chiamato dunque anche koenigspaprika, o paprika del re) a quello più delicato, il csipősmentes, o il különleges, che significa “speciale”: gusto delicato, ma colore strepitoso.
Quasi sempre, si tratta di paprika macinata (in certi negozi si possono comprare i peperoncini essiccati interi, ma sono poco utilizzati), una sottile polvere che va dal rosato intenso al rosso più vivo a quello che tende al marrone più scuro, o all’amaranto
Le fantasie nazionaliste
La presenza di questa spezia è talmente diffusa, e talmente identitaria in Ungheria, dall’essere utilizzata anche al di fuori della cucina. In occasione delle periodiche proteste contro l’autoritario primo ministro Viktor Orbán, ecco che questi viene rappresentato come un rospo malevolo, seduto su un peperoncino, o con la faccia schiacciata da due peperoncini di paprika.
La paprika viene utile nel corso delle manifestazioni anche come sorta di vernice, quando viene utilizzata la pasta di paprika (dall’aspetto molto simile al concentrato di pomodoro, ottenuta tritando peperoni freschi, insieme a sale e succo di limone, e ad alcuni altri ingredienti che possono variare da ricetta a ricetta) per tracciare scritte sui muri, o sporcare di rosso cartelli, simboli, o qualunque altra cosa. L’aspetto sanguinolento aggiunge quel tocco drammatico extra.
Rendendo l’equivalenza Ungheria-paprika forte e simbiotica, per quanto si tratti di una spezia originaria dell’America, portata da un navigatore italiano per contro della corona di Spagna, poi proposta dagli ottomani, e coronata da un imperatore austriaco. Come a sottolineare quanto i nazionalismi legati al cibo abbiano basi proprio fantasiose.
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