- La serie Tutto chiede salvezza è bellissima. E che sia tratta dal mio romanzo, che ci crediate o no, conta zero.
- A parlare è l’editor che per oltre vent’anni si è occupato di prodotto audiovisivo, fiction e film, che conosce il mercato della serialità italiana e internazionale.
- La serie è bella perché c’è bisogno di dialogo attorno ai temi dell’esistenza, i temi della natura umana.
500 persone in seduta di gruppo. Si sfiorerà l’ineleganza? Forse sì. Ma tra ineleganza e Onore del vero, per dirla alla Luzi, è preferibile di gran lunga la seconda. Martedì 11 ottobre, a Roma, al cinema The Space Moderno di piazza della Repubblica, è andata in scena la première della serie Tutto chiede salvezza, tratta dall’omonimo romanzo dello scrivente (da qui prima e terza persona, plurale maiestatis, si mischieranno senza soluzione di continuità), edito da Mondadori.
Due sale del cinema sold out, una con i ragazzi del Giffoni Film festival, l’altra con il cast e gli invitati del caso, quest’ultima con quasi cinquecento persone. Una premessa fondamentale, più che altro una preghiera: difendiamo con le unghie e i denti la magia dei riti collettivi che il Covid ci ha negato per così tanto tempo, il piangere e ridere nello stesso momento, lo stare assieme, il condividere l’attimo. La premessa è d’obbligo perché quello che si è vissuto lo si è vissuto nella sua grandezza proprio per questo, per quella magica moltiplicazione che compiono gli sguardi. Prima dell’inizio, il sottoscritto e Francesco Bruni, Federico Cesari, Roberto Sessa, il produttore, e Filippo Rizzello, il manager per le serie italiane di Netflix che ha seguito lo sviluppo, siamo stati chiamati a un breve saluto in sala. Qualche ora prima, meravigliosa coincidenza, avevo letto alcuni brani dell’ultimo libro di Eugenio Borgna, psichiatra filosofo, più semplicemente maestro d’esistenza.
Ho citato lui e la sua definizione di follia: l’infelice sorella della poesia. Dobbiamo curare, ascoltare, chi soffre, difendendo la poesia quanto la sorella più in difficoltà. Con amore, tenerezza, ascolto. Buio in sala. Della serie, in sette episodi, come accade di norma, sono stati trasmessi i primi due accorpati.
Avendo cofirmato le sceneggiature, insieme a Francesco Bruni, lui anche regista della serie, a Daniela Gambaro e Francesco Cenni, avevo già avuto modo di vedere l’adattamento, non certo sul grande schermo e con cinquecento persone accanto… Ho rivisto Daniele, interpretato da Federico Cesari, con accanto i suoi compagni di stanza e avventura. Ho rivisto Pino, Ricky Memphis, il dottor Mancino, Filippo Nigro, e potrei continuare con le accoppiate personaggi/attori. Già l’ho scritto e detto tante volte pubblicamente.
La serie Tutto chiede salvezza è bellissima. E che sia tratta dal mio romanzo, che ci crediate o no, conta zero. A parlare è l’editor che per oltre vent’anni si è occupato di prodotto audiovisivo, fiction e film, che conosce il mercato della serialità italiana e internazionale. È bellissima per un dato, su tutti: il suo quoziente di realtà. In sala, tra i cinquecento invitati, c’erano tra gli altri Peppe Dell’Acqua, psichiatra compagno di Franco Basaglia in tutta la sua meravigliosa vicenda, consulente scientifico della serie, e Antonello D’Elia, presidente di Psichiatria democratica. In scena, con tutti i limiti della rappresentazione, prende vita un Spdc, servizio psichiatrico di diagnosi e cura, per come accade quotidianamente in tanti ospedali italiani. Un Spdc con i suoi pazienti, i soggetti con patologie psicologiche e psichiatriche, i sottoposti a Tso, trattamento sanitario obbligatorio, come accade per il Daniele del romanzo e della serie, come accaduto nella mia vita.
Ma anche medici e paramedici, con la loro empatia o antipatia, con la stanchezza di un lavoro usurante, spesso più in difficoltà dei pazienti che dovrebbero curare. E c’è la vitalità, sperata e disperata, del protagonista. Il suo interrogarsi sull’esistenza e il suo significato profondo, a cavallo tra normalità e cos’altro? La malattia mentale esiste, in modo spesso terribile, ma è altrettanto assurdo pensare di poter vivere senza mai sfiorare la ferita profonda insita nella nostra natura, senza mai andare mai in crisi, per citare uno dei personaggi della serie. Mario, interpretato da Andrea Pennacchi, maestro elementare con un passato che lo tormenta, eroe tragico che salva senza sapersi salvare.
E poi Nina, una straordinaria Fotinì Peluso, anche lei ricoverata per Tso, la novità, invenzione, costruita in fase di sceneggiatura e assente dal romanzo. Con la sua rabbiosa sensibilità, che attacca come unico strumento di difesa. Con i giri di parole gli scrittori ci vivono, ma l’inchiostro ha un costo e la carta pure. E l’adrenalina è ancora a mille da legittimare l’incoscienza.
Un tripudio. Cinquecento persone rimaste nella sala almeno per mezzora dopo la fine della proiezione, che sono rimaste perché non volevano abbandonare i personaggi, gli attori presenti a rappresentarli in carne e ossa, in modo quasi irrazionale.
Perché la serie è bella, lo si è detto, ma occorre entrare in questo aggettivo così semplice e complesso assieme.
La serie è bella perché c’è bisogno di dialogo attorno ai temi dell’esistenza, i temi della natura umana. Non utilizzo volontariamente vocaboli che rimandano al tema della malattia, che sia mentale o altro, perché è semplicemente inammissibile pensare a un uomo senza più domande, su sé stesso e l’universo.
Patologico, semmai, è pensare a un uomo come a un animale domato, trasportato nella vita senza mai fremiti, obbediente sempre e comunque al regime della cosiddetta normalità.
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