Queste due interviste di Giancarlo Dotto e Curzio Maltese si trovano sull’ultimo numero di FINZIONI – il mensile culturale di Domani. Per leggerlo abbonati a questo link o compra una copia in edicola
Nel male e nel Bene
Giancarlo Dotto, L’Espresso, 15 marzo 2012. Intervista raccolta nell’estate del 1997
Dieci anni dopo la sua morte, l’ho trovato in fondo a un cassetto. Un vecchio nastro. Un Carmelo Bene inedito che si diffonde sulle sue predilezioni e repulsioni letterarie, in fondo a una delle tante notti insonni nel suo eremo di Otranto, estate del 1997. Dell’opera di Bene si sa e si è scritto tutto, tranne l’indispensabile. Ancora prima che reinventare l’attore a teatro, ancora prima che ripensare il cinema e la tv, la letteratura e il verso, dislocare la voce dal corpo, il suono dal significato e l’atto dall’intenzione, la sua impresa, certosina, implacabile, è stata quella di diventare Carmelo Bene. E cioè mito a se stesso, mito tra i miti, di un mitomane nato. Che, da bambino, andava a frugare sotto le vesti delle Madonne di cartapesta, in attesa di diventare la loro apparizione preferita. Quella notte iniziammo a parlare di miti sportivi, da Edberg a Van Basten e finimmo a parlare di miti letterari.
Cominciamo dai tedeschi e da Goethe. Risulta che non l’hai mai amato. Il tuo Faust a teatro è quello di Marlowe.
Lo trovo troppo esemplare, Goethe. Troppo esemplare e a sproposito. È anche per questo che André Gide lo stronca come si deve nelle sue note sull’Egmont. Peraltro stroncato per la concertistica anche dal suo amico Schiller, un altro poco interessante nei suoi conflitti morali.
Virando in positivo?
M’interessa molto Von Chamisso. Il suo Peter Schlemihl è il Faust più grande, dove l’anima da perdere è l’ombra. Gigantesco. Aggiungo il Rilke delle Elegie duinesi.
Aspetterei una citazione del tuo Hölderlin.
Sono d’accordo con don Benedetto Croce: per trovare una perla in Hölderlin bisogna scorrere tante cose cristologiche o teocratiche. L’ho anche tradotto, io. Dio mi perdonerà. No, non mi perdona perché non c’è. Sono io a perdonargli l’assenza. Certo, dove svetta, Hölderlin, svetta su tutti.
Ci sarebbe poi un boemo di lingua tedesca.
Su tutti, non ci piove, inarrivabile, Franz Kafka. Ho cominciato a leggerlo a quindici anni, ma non ero pronto. Troverò prima o poi il tempo di stilare un mio saggio sul «comico» in Kafka. E, quando parlo di comico, non intendo la consolazione del riso, ma il cianuro del porno.
Continuiamo il gioco. Siamo in Spagna.
E qui non si finisce mai. La leggo in lingua la letteratura spagnola. Dico Gòngora, Quevedo, Antonio Machado. Naturalmente Pedro Calderòn de la Barca.
Tirso de Molina, il prete drammaturgo?
Non m’interessano i teatranti.
Cervantes?
Ovvio. Non solo quello del Don Chisciotte, ma anche Vetrada, il dottore che si crede fatto di vetro e vive nel terrore di essere infranto, da cui il mio omaggio teatrale negli anni eroici delle cantine.
García Lorca?
Cose per la maggior parte da buttar via, pur essendo Lorca tra i più grandi simbolisti. Prendo quello del Paesaggio americano. Ci metto, il filosofo Unamuno con i suoi limiti. Nel suo commento al Don Chisciotte e SancioPanza ci sono cose interessanti.
È il momento per affrontare i portoghesi.
Portoghese è il mio romanziere preferito: Eça de Queiroz. Il suo Illustre casata Ramires è un ceffone alla nobiltà, uno schiaffo all’araldica, di una desolazione sconfinata, le atmosfere gelate dei film di Joåo Monteiro. De Queiroz è uno dei miei dieci autori prediletti.
Con i francesi il discorso si fa sterminato.
Inizio da François Villon a Rabelais, per restare nel Cinquecento. Se poi si passa al Sette-Ottocento, si va ai pazzi. Èmile Zola in primis. La bestia umana, una crudezza inaudita, il fango al fango. Lo metto tra i dieci assoluti.
Più di Flaubert e Maupassant?
Assolutamente. Di Flaubert prendo quello dei Racconti più che Bovary e Salambò. E poi tanto Balzac. Anche qui non dico Papà Goriot ma Sarrasine, quindici paginette e un miracolo della penna. Il mio francese preferito è, però, Villiers de L’Isle-Adam. Lo amo da sempre. E poi Sade, chiaramente. Come si fa a non citarlo?
Tra Baudelaire, Verlaine e Rimbaud?
Dico Tristan Corbière, più di Verlaine e di Rimbaud, più di qualunque altro poeta francese. Certo, a me il più affine. Dico Gérard de Nerval, tanto in versi quanto in prosa. Di Baudelaire prendo, oltre a Les fleurs du mal, il suo interessamento a Poe e a Delacroix.
Nella casa romana hai l’opera completa di Stendhal.
Cinquanta tomi. Non tanto e non solo Il rosso e il nero o La Certosa, a cominciare da quando, diciassettenne, scriveva le sue prime recensioni musicali, i suoi studi su Rossini.
Con i francesi non si finisce più. È quasi l’alba e mancano gli inglesi, i russi, gli italiani.
Qui rischiamo il manicomio. Con gli inglesi ci perdiamo del tutto. Da Chaucer alla grande vendemmia elisabettiana, Marlowe, Shakespeare, fino a John Donne, sopra tutto e tutti. Lo stesso Oscar Wilde, quello grandissimo de La ballata del carcere di Reading.
La tua più grande dichiarazione d’amore l’ho sentita però per un dublinese.
L’Ulisse di Joyce fu la svolta dei miei anni giovanili. Nulla fu più come prima. Illeggibile nella versione francese di Valery Larbaud e dello stesso Joyce, ci vuole la traduzione italiana di Giulio de Angelis per riscattarlo. L’inglese moderno deve tutto a un irlandese come Joyce e a un americano come Ezra Pound. Irlandese d’origine era l’enorme Jonathan Swift.
Lo stesso Bernard Shaw.
Non mi riguarda molto. Come non mi riguarda Samuel Beckett. Lo capisco talmente che non m’interessa.
Parliamo di Walt Whitman, per entrare nel mondo anglo-americano.
Non m’interessa. C’è piuttosto Henry James, in quanto rovescio di Joyce. C’è soprattutto il sublime Nathaniel Hawthorne, non tanto nella Lettera scarlatta ma nei racconti. Ha ragione Borges a consigliarli. Melville gli dedica il suo Moby Dick.
C’è il grande Francis Scott Fitzgerald.
L’infinito Francis Scott Fitzgerald. Un fratello per me. Uno che nega il tempo, non c’è infanzia, con lui non si è mai nati. Prendo i suoi romanzi brevi, Il prezzo era alto su tutti. Una penna magistrale che, a tratti, parrebbe giornalistica tanto butta giù rapido. Superbo e insuperato.
Ernest Hemingway?
Appartiene al grande giornalismo. M’interessa molto, ma molto meno di Fitzgerald.
Gli scrittori e poeti della Beat Generation?
A morte. Tutti da fucilare. Corso, Ferlinghetti, Ginsberg. Il William Burroughs del Pasto nudo.
Kerouac?
Ha scritto delle cosine meno gravi, ma se ne può fare a meno benissimo. La Beat Generation è stata sopravvalutata, come la Nouvelle Vague francese. Godard mi fa schifo, come tutto il cinema francese.
Charles Bukowski. Mai incrociato?
Ma sì, come Nabokov. Li ho aperti e chiusi. Non c’è tutto questo tempo disponibile. Lo stesso Živago. Sono un ammiratore di Boris Pasternak, ma l’ho lasciato a metà. Però ha ragione Majakovskij: «Chi non conosce il russo perde due cose, Puškin e Pasternak». Restando in terra russa, preferisco Gogol’ a Gor’kij.
L’italiano da affinità elettive?
Il più grande, a tutt’oggi, rimane Matteo Maria Bandello, il novelliere. Ma, la manzoniana Storia della colonna infame è forse il più grande libro di tutta la letteratura italiana d’ogni tempo. Più della Vita Nova, più d’ogni cosa. È un miracolo scritto da un cattolico.
Il tuo Dante?
È come Chaucer o Shakespeare per gli inglesi. Pozzi senza fondo, troppo vasti per parlarne, tali che a un certo punto si smarrisce anche la tua deferenza. Certo, tra i poeti italiani il sommo resta Dino Campana. Nessuno, nemmeno Leopardi, arriva ai Canti Orfici.
Abbiamo omesso qualcosa di fondamentale?
Ho taciuto Cime tempestose che è l’opera romantica più importante d’Europa, e forse non solo romantica. Georges Bataille mette quello di Emily Brontë fra gli undici libri della storia umana. Sono d’accordo.
Ce n’è abbastanza perché possa anche tu stilare il tuo santuario della letteratura di ogni tempo.
L’Iliade in testa a tutto. Ecco, lì c’è il bacio della Grazia in fronte all’orbita vuota di chi l’ha scritta. Si chiami Omero o qualsivoglia, l’Iliade è follia pura, nella versione di Einaudi. Tutte le altre sono da cestinare. A seguire ci metto l’Ulisse di Joyce e poi Cime tempestose. Franz Kafka tutto, anche avesse scritto solo la Descrizione di una battaglia, un raccontino. Basterebbe qualunque pagina di Kafka. Di Zola abbiamo detto.
Si è fatta l’alba e non abbiamo toccato i latino-americani.
Ne parleremo alla prossima veglia.
Il mio testamento dalla tomba del teatro
Curzio Maltese, la Repubblica, 20 novembre 2000
Nella stanza rossa dell’attesa, la notizia colpisce alle spalle: «Carmelo Bene è morto, per favore non pubblichi foto, soltanto spazi bianchi». Una sciagura, ma poiché a dare il prematuro annuncio è lo stesso defunto, se ne può discutere. È l’inventore di divini spettacoli, dai Pinocchi ai Nostra Signora, che ancora meravigliano nelle notti di Rai 3 a trent’anni di distanza, torna in scena dal vivo o quasi all’Argentina dal 24 al 30 novembre con un lavoro sull’invulnerabilità di Achille, anzi l’in-vulnerabilità con il trattino come il centro-sinistra. Achille, l’eroe sciocco, l’invulnerabile che corre alla rovina, una ventennale ossessione di Carmelo Bene che come invulnerabile ha vissuto la vita e ne porta i segni.
I testi sono naturalmente da Omero, poi dall’Achilleide di Stazio e dall’amato von Kleist («Goethe, da assessore al classico, lo odiava quasi quanto odiava Beethoven») e dello stesso Bene, appena sommerso da una slavina di premi per il poema ’l mal de’ fiori, «opera di altissima macelleria» dove il Maestro, tumulato da tempo è senza rimpianti il cadavere del teatro, si dedica a farla finita una volta per tutte anche con la lirica del Novecento, ai suoi sopravvalutati Montale e Quasimodo, per tornare all’ottima pagina bianca. Perfino Bene è disposto ad ammettere che si tratti della più importante opera poetica del secolo.
«Considero queste di Achille le mie ultime prove, un testamento fra il concerto e lo spettacolo. E lo sconcerto dello spettacolo, che in me è forte quanto la vergogna di apparire davanti a un pubblico che intendo coinvolgere il meno possibile. Contro la retorica della partecipazione, vorrei che gli spettatori facessero come me, si comportassero come se non esistessero più. Basta un colpo di tosse e si fa sipario».
Un applauso alla fine è consentito?
Per carità, l’applauso è un’infamia. Ormai il pubblico a teatro applaude soltanto per pietà, nella giusta convinzione che, con un po’ di prove, quelli in platea farebbero meglio di quelli in scena.
Pare che il suo giudizio sul teatro non sia migliorato negli anni.
La situazione del teatrino nazionale e non riflette la generale resa alla mediocrità che avanza in un mondo dove l’arte si è messa da parte da sé. Che, se vogliamo, è perfino un bene.
Sono cose che ha già detto trent’anni fa e da allora non mette più piede in un teatro da spettatore, o no?
E che cosa dovrei andarci a fare? L’arte non esiste più, è diventata una sottospecie del turismo di massa. In questo senso l’intuizione del ministero del Turismo e dello spettacolo, che allora io chiamavo Spettacolo del turismo mancato, si è rivelata esatta. I teatri sono filodrammatiche di impiegati guidati da un facchino che ha letto qualche giornale in più. Tutti fermi al ruolo, alla rappresentazione, cose che attraverso di me sono state debellate tanti anni fa. Gli autori non esistono. Al pubblico si danno cose che già conosce. È tutto un ripetere, recitare, recensire, riscoprire. Ora per esempio si riscopre Eduardo, senza Eduardo, il che è impossibile. I suoi testi, le Filumene Marturano, sono ben poca cosa. La grandezza di Eduardo era altro.
Capisco che non sia la sua prima preoccupazione, ma se dovesse dare un consiglio a chi si ostina a fare teatro?
Baudelaire diceva: il teatro non sarà mai nulla finché gli attori non si decideranno a usare dei porte-voix, oggi si direbbe dei microfoni, a salire sui trampoli e a fare uscire di scena le donne.
In fondo, sarebbe un ritorno alle origini, al teatro greco.
Perché i Greci non avevano già capito tutto? Soltanto io sono andato oltre, all’essenziale. Ho tolto di scena, al posto di mettere in scena, lasciando soltanto la voce, la musica.
Tornando all’Achille e al suo testamento…
È un omaggio alla nostalgia per le cose che non furono.
Ma la nostalgia è sempre per le cose che non furono.
Esatto. E questo è il senso di tutto quanto ho fatto in teatro. E poi in poesia, al cinema, in radio, in televisione…
È sbagliato vedere nelle sue ultime prove segni di un’attenzione per la religiosità?
Il sentimento religioso mi attira più che mai ora perché non esiste più, soprattutto grazie alla Chiesa. Si prenda questo nauseante Giubileo. Hanno demolito ogni residuo di sentimento religioso di questo coma che è la vita, per celebrare un’altra festa del turismo di massa. Con l’applauso dei cosiddetti laici, laidi e laici che hanno magnificato lo spirito di queste greggi turistiche in pellegrinaggio. Mentre ci sono politici, come quel Casini, che parlano di Dio come se fossero in confidenza. Col Giubileo il cattolicesimo ha confermato la sua inferiorità rispetto al protestantesimo, che non nega l’individuo e non ha bisogno di questo delirio di massa.
Guy Debord profetizzava già negli anni sessanta il ritorno al cattolicesimo, che sarebbe più adatto alla società dello spettacolo.
O alla società dell’avanspettacolo, com’è questa. Negli ultimi trent’anni sulla scena della storia ci sono soltanto attoruncoli. Questo papa non era forse da giovane un mediocre attore polacco? Ha soltanto celebrato se stesso e i suoi predecessori, un fatto di narcisismo. D’altra parte tutti i papi hanno sempre saputo che Dio non esiste, altrimenti si sarebbero comportati diversamente.
È la stessa teoria secondo la quale i segretari del Pcus non hanno mai creduto nel comunismo.
Certo. E non c’era bisogno di aspettare la caduta dei muri per celebrare il fallimento del comunismo. Era tutto già scritto nel suicidio di Majakovskij nel 1930. Quello che non si dice è che insieme al comunismo è morto lo storicismo, l’idea che la storia serva a qualcosa, e l’illusione stessa della politica. È ora che la si finisca con questa assurdità che l’uomo sia nato per occuparsi del prossimo. La fraternità, la solidarietà sono sentimenti inumani, non ci appartengono. Se l’uomo è nato per qualcosa è per rovinare se stesso.
Homo homini lupus, di Hobbes, va letto nel senso che l’uomo è lupo di se stesso, più che divoratore dell’altro. Il suo ottimismo si estende anche alla democrazia, immagino. Che ne pensa di questo avanspettacolo dell’elezione americana?
C’erano periodi dell’Impero Romano in cui circolavano due o tre imperatori, come in queste settimane, e anche quelli non erano un granché. Il tutto certo è ridicolo. Non esistono più tragedie, è tutta fiction. Anche le guerre sono diventate fiction. Si vive in un eterno quotidiano dove la spinta all’immortalità è cancellata. L’eternità è il banale, il quotidiano ripetuto all’infinito, la televisione.
Il Grande Fratello?
Come scusi?
Niente. C’è qualcuno o qualcosa che rimpiange dell’epoca dei suoi esordi, della vita culturale degli anni sessanta e settanta?
Non ho fatto in tempo a conoscere Tommaso Landolfi, al quale i suoi amici, non molti, dicevano che io somigliassi. Mi capita di pensare a Pasolini, a proposito del quale ho evitato con cura di leggere le celebrazioni di queste settimane sulle gazzette. Eravamo amici, nonostante la differenza di età. Penso alla sua grandezza di antipoeta, di bestemmiatore di fede e speranza, di corruttore. Al suo autolesionismo, che non è masochismo ma autodistruzione. Le nostre brave sinistre non hanno mai voluto accettarlo in questa dimensione, eppure basta sbirciare nel Salò. Moravia lo diceva: il poeta è cattivo. I poeti devono essere cattivissimi.
Queste due interviste sono tratte da Carmelo Bene Si può dire solo nulla, a cura di Luca Buoncristiano e Federico Primosig, volume di oltre 1.700 pagine che raccoglie tutte le sue interviste appena pubblicato da Il Saggiatore.
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