- La storiografia internazionale ha da alcuni anni avviato una discussione che coinvolge ancora poco gli italiani e che riguarda la necessità di ripensare la storia dell’antifascismo.
- Ci sono almeno due fronti da considerare: quello interno e quello dei dissidenti fuggiti all’estero. Ma è solo indagando le connessioni fra i due fenomeni che si riuscirà a ritrovare le radici della nostra democrazia.
- Quello che ancora manca nel panorama degli studi italiani è un approccio transnazionale all’esperienza dell’antifascismo che ponga al centro delle ricerche l’esperienza dell’esilio.
Da alcuni anni si è aperta un’interessante discussione nella storiografia internazionale circa la necessità di ripensare la storia dell’antifascismo. Il tema non ha finora avuto grandi ricadute all’interno della comunità degli storici italiani. Questo articolo intende evidenziare i motivi che rendono necessaria quest’azione di rilettura della storia dell’antifascismo, indicando alcuni percorsi di ricerca.
Due sono gli assi principali lungo i quali dagli anni Cinquanta ad oggi si sono sviluppati gli studi dell’antifascismo: quello incentrato sulla dimensione interna della lotta al regime mussoliniano e quello che ha invece riguardato le diverse modalità di lotta al fascismo realizzate fuori dai confini nazionali, prima in vari paesi europei e dopo il 1940 nel continente americano.
La ricerca sull’antifascismo
È chiaro che questi due settori di studio sono stati in passato tra loro strettamente legati e che pertanto per capire l’evoluzione del secondo occorre delimitare bene lo sviluppo delle ricerche che hanno caratterizzato il primo. Larga parte della storia dell’antifascismo “interno” è rimasta, infatti, strettamente legata alla questione dei caratteri assunti dalla lotta al fascismo e dal percorso compiuto per la costruzione della democrazia repubblicana dopo il 1943.
Di fatto questa storia ha coinciso con la storia dei partiti antifascisti e con la storia delle loro strutture che avevano clandestinamente operato nella fase precedente alla caduta del regime mussoliniano e nell’esperienza della Resistenza.
Ciò ha comportato il fatto che, almeno fino agli anni Settanta, ai diversi e variegati fenomeni di opposizione al fascismo maturati tra il 1926 e il 1943 sia stata dedicata scarsa e frammentaria attenzione. L’antifascismo non aveva mai assunto la dimensione di un campo autonomo di ricerche: ad esso al massimo si riconosceva il ruolo di collante ideologico che aveva reso possibile l’assemblaggio e la nascita del fronte resistenziale.
La svolta
Questo modello interpretativo, tutto centrato sulla continuità tra antifascismo e democrazia repubblicana, ha, dunque, per lungo tempo dominato gli studi di settore e si è accompagnato dalla produzione di una precisa narrazione retorica e all’uso di una serie di stereotipi che hanno impedito di collocare le diverse esperienze di antifascismo nel contesto storico-temporale in cui esse si erano consumate, ovvero dentro la storia dell’Italia fascista.
Si può qui aggiungere che tale approccio abbia nociuto anche alla reale conoscenza dei profili intellettuali dei pochi – davvero pochi – uomini che avevamo avuto il coraggio di opporsi alla dittatura, per lungo tempo descritti come una sorta di aristocrazia dotata di doti straordinarie e rare.
Non è un caso, del resto, che questa ipotesi interpretativa abbia retto fino agli anni Settanta quando contestualmente si verificano due fenomeni tra di loro non direttamente collegati. Da un lato l’emergere di alcuni segnali di crisi del sistema dei partiti e dall’altro, sulla scia degli studi di Renzo De Felice, una svolta storiografica che ha aperto la discussione del rapporto tra fascismo e società italiana e introducendo nel dibattito storiografico importanti riflessioni relative ai caratteri peculiari del fascismo e alla questione del consenso. Si trattava, in sostanza, di elementi che riproponevano in maniera chiara la necessità di mettere in relazione la storia dell’antifascismo con quella del fascismo.
Antifascisti all’estero
Condizionato dai limiti interpretativi qui descritti, anche lo studio delle diverse esperienze antifasciste all’estero ha finito per lungo tempo per muoversi entro i rigidi steccati delle appartenenze politico-partitiche, dedicandosi prevalentemente alla storia delle strutture dei partiti operanti nei paesi di emigrazione, alla ricostruzione del dibattito interno ai a quei partiti, alla storia dei vari apparati di propaganda antifascista che nascono fuori dai confini nazionali o di strutture interpartitiche come la Concentrazione antifascista e soprattutto alle vicende dell’emigrazione politica.
Sulla scia dei pionieristici lavori di Aldo Garosci (1953) e dello storico americano Charles Delzell (autore de I nemici di Mussolini pubblicato in inglese nel 1961 e tradotto nel 1966), si è sviluppata un’ampia serie di ricerche dedicate all’esperienza del fuoriuscitismo.
Ha preso lentamente forma la storia di un fenomeno complesso in cui si mescolano fenomeni di emigrazione economica ed emigrazione politica che spostano verso varie destinazioni migliaia di lavoratori italiani e di militanti politici.
Intellettuali in fuga
Come è noto, la prima di queste ondate è quella che si consuma tra il 1922 e il 1924 con destinazione prevalente la Francia e la Svizzera. Con essa abbandonano l’Italia personalità come Francesco Saverio Nitti, diretto a Zurigo e don Luigi Sturzo, diretto a Londra.
Un secondo numericamente più consistente flusso, è quello che cronologicamente si tende a collocare tra l’inizio del 1925 e l’autunno del 1926; in una fase in cui Mussolini è intento ad accelerare la fascistizzazione dello stato e a imprimere una svolta finale alla repressione delle residue forme di opposizione e di dissenso.
Tra gli altri lasciano l’Italia in quei mesi Giovanni Amendola, Piero Gobetti, Gaetano Salvemini e Palmiro Togliatti. La terza ondata migratoria è quella che si consuma dopo la promulgazione delle cosiddette “leggi fascistissime” ed è quella che consente ai dirigenti dei partiti antifascisti (tra di loro possiamo ricordare i nomi di Filippo Turati, Claudio Treves, Pietro Nenni, alcuni repubblicani e il liberale Carlo Sforza) di trovare salvezza oltre frontiera, prevalentemente a Parigi, ormai divenuta a tutti gli effetti la capitale internazionale dell’antifascismo.
L’antifascismo popolare
Ora, se è vero che la storia del fuoriuscitismo ha costituito un capitolo importante della più ampia storia dell’antifascismo, con il passare degli anni questo filone di studi sembra, alla luce delle innovazioni introdotte dalla storiografia internazionale, aver perso grande parte del suo potenziale euristico.
Oltre ai limiti già segnalati, la storia del fuoriuscitismo si muoveva prevalentemente all’interno di una dimensione nazionale della lotta al fascismo, scarsamente attenta a cogliere la ricchezza culturale prodotta dall’incontro con donne e uomini provenienti da altre esperienze di lotta.
Del resto, questa limitata apertura verso una dimensione spaziale più ampia della storia dell’antifascismo sembra aver segnato anche le fasi più recenti della ricerca storica in questo settore, caratterizzate da importanti innovazioni come quelle, ad esempio, che hanno portato ad un progressivo allargamento delle tipologie di antifascismo analizzate, arrivando ad includere anche quella di “antifascismo popolare”. Una categoria questa che include un’ampia gamma di forme di opposizione al regime mussoliniano rimaste per lungo tempo in ombra.
L’approccio transnazionale
In sostanza, quello che ancora manca nel panorama degli studi italiani è un approccio transnazionale all’esperienza dell’antifascismo che, sulla scia della svolta avviata dalla storiografia tedesca ancora negli anni Ottanta – la cui portata innovativa era stata ben colta da Enzo Collotti – ponga al centro delle ricerche l’esperienza dell’esilio, inteso come passaggio decisivo del percorso compiuto da una parte altamente qualificata del ceto politico antifascista italiano ed europeo.
Che la scelta di lasciare l’Italia coincidesse con una nuova fase della lotta dell’antifascismo internazionale era chiaro a molti dei protagonisti di quel percorso. Scrive Carlo Rosselli nel 1931, due anni dopo avere raggiunto Parigi e dato vita con altri esuli (tra cui Gaetano Salvemini, Alberto Cianca, Alberto Tarchiani), al movimento Giustizia e Libertà: «Un solo pensiero ci guiderà nella terra ospitale: fare di questa libertà personale faticosamente conquistata uno strumento per la riconquista della libertà di tutto un popolo. Solo così ci par lecito barattare una prigionia in patria con una libertà in esilio».
Riflessioni in esilio
È dunque nel flusso degli scambi, nella circolazione delle idee e nella contaminazione delle culture politiche prodotte dalla forzata mobilità di intellettuali, artisti e militanti politici negli anni tra le due guerre, è dentro le reti culturali europee (fatte di riviste, incontri, pubblicazioni clandestine), è nelle riflessioni che negli stessi anni maturano nelle “comunità” di esuli che si formano oltre oceano (New York, Città del Messico, Buenos Aires per citare le più importanti), che possiamo cogliere le novità più rilevanti prodotte dall’antifascismo.
Esse riguardano la crisi dei regimi liberali, i caratteri dei regimi totalitari (incluso il sistema comunista) e riguardano soprattutto il futuro della democrazia che è il lascito più importante prodotto dall’esperienza dell’esilio.
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