Ho conosciuto Nicola Crocetti a Recanati durante un incontro pubblico, nel 2017: era previsto un suo dialogo con Valerio Magrelli. Ma il treno su cui viaggiava Magrelli faceva ritardo, e l’incontro diventò – almeno per la prima metà – uno straordinario assolo di Crocetti. Per chi non lo conoscesse, Nicola Crocetti è una delle colonne della cultura poetica in Italia. Forse oggi nessuno in Italia più di lui ha attraversato, di persona, tutta la poesia europea del Novecento. Nel 1988 ha fondato la rivista internazionale Poesia, uno tra gli esempi più fulgidi e meno conosciuti di giornalismo indipendente: un mensile di poesia costruito come una rivista pop, con sedi anche a Londra e New York, presente in tutte le edicole italiane accanto ai giornali più patinati. Proprio come un tabloid, dove però le star erano Mario Luzi, Yves Bonnefoy, Seamus Heaney, Adam Zagaweski, Duns Grünbein. «La più bella rivista di tutte», l’ha definita il grande Tony Harrison, tanto più in un settore visto da sempre come quello economicamente meno sostenibile.

A parte casi e miracoli sparsi. Come quando, mi racconta, nel 2002 l’omologa rivista americana Poetry ricevette una donazione di 100 milioni di dollari da parte di Ruth Lilly, erede dell’impero farmaceutico produttore del Prozac. Chiedo a Crocetti di raccontarmi meglio l’episodio. «La vita da miliardaria non aveva risparmiato a Ruth Lilly i dolori che la vita riserva a ciascuno di noi. E come tutti gli addolorati, anche Ruth Lilly aveva scritto poesie. Le aveva inviate a Joseph Parisi, che dall’83 dirigeva Poetry. Ma il direttore non si era lasciato influenzare dal patrimonio di Lilly, e si era rifiutato di pubblicarle». Molto coraggioso da parte sua. «Un altro poeta inedito al posto di Ruth Lilly avrebbe comprato la rivista e avrebbe cacciato a pedate il direttore, ma lei no: cominciò a sovvenzionare Poetry con cifre di varie decine di migliaia di dollari, fino alla mega-donazione del 2002».

Le cose cambiano

Gli chiedo, con un po’ di malizia, se abbia provato anche lui a contattare Ruth Lilly. Una donazione avrebbe fatto comodo anche a lui. «Nel 1996 pubblicai un annuncio sull’inserto domenicale del New York Times chiedendo donazioni. Ricevetti una lettera di tre righe, che chiedeva alcune copie saggio della rivista. La lettera era firmata “Ruth Lilly”. Non l’avevo mai sentita nominare. Mandai una decina di copie di Poesia, ma non ricevetti alcuna risposta. Le rigide leggi Usa vietano donazioni a istituzioni non americane. Così il rischio di arricchirmi con la poesia venne scongiurato».

Di Poesia Nicola Crocetti è stato eroico direttore ed editore fino all’anno scorso, quando la sua creatura è stata incorporata da Feltrinelli.

La rivista continua a uscire, in una nuova serie e in forma diversa, più adatta forse a un tempo che non ha più il suo epicentro nella rivista cartacea: «Feltrinelli, onore al merito, mi consente un’ampia libertà nei contenuti. Ho mantenuto gli stessi collaboratori e, spero, la stessa qualità. Poesia non è più la rivista corsara che era prima: ora è un libro con una lunga storia alle spalle. Le cose non possono rimanere sempre le stesse: la sfida di far arrivare la poesia in edicola, alla portata di tutti e per più di trent’anni, l’ho vinta, e da solo».

Essere direttore ed editore di poesia in Italia significa soprattutto fare selezione, operare filtri, «garantire una cernita qualitativa rispetto alle centinaia di migliaia di autori di versi che affollano questo paese di non lettori, e che si pubblicano sul web a beneficio dei loro parenti e amici. Poi, qualunque scelta uno faccia su qualunque rivista, ci sono centinaia di migliaia di “poeti” pronti a contestarla e ad affermare: “Meglio le mie poesie di quelle che pubblicate voi”. Il problema è che in Italia pochissimi leggono i libri di poesia, ma tutti scrivono versi. Nessuno si sottrae alla tentazione di esprimere in versi le proprie passioni, dalle casalinghe ai pensionati, dalle persone di scarsa cultura che non hanno mai letto un libro di poesia in vita loro fino alle categorie più privilegiate: uomini politici e di potere con vite e redditi invidiabili, professionisti con stipendi da favola, cantautori di nome e di pseudonimo, bancari e perfino qualche banchiere: forse per dimostrare che anche loro hanno un’anima».

Gli chiedo che tipo di poesia preferisce, lui che di poesia ha vissuto per tutta la vita. «Quella che spesso è costata la vita a chi la scrive, nel senso di una dedizione totalizzante. La poesia che smaschera i potenti corrotti e li mostra in mutande».

35.000 versi

Nicola Crocetti è anche un traduttore dal greco moderno: le sue versioni italiane di Kavafis, Seferis, Ritsos sono già canoniche. È uscita da poco la sua ultima fatica, che gli è già valso il premio della Lettura come miglior traduzione, e che è senza dubbio uno degli eventi culturali più importanti degli ultimi tempi: l’Odissea di Nikos Kazantzakis, un vero sequel di Omero lungo 35.000 versi. «Un capolavoro, da molti anni già tradotto nelle lingue principali, sarebbe stato un peccato che continuasse a restare sconosciuto in italiano».

Non sappiamo se sia bella quanto l’originale – se la capacità di durare è un affidabile criterio di valore, dovremo aspettare venticinque secoli per saperlo – ma certamente è bellissima. L’Odissea di Kazantzakis inizia proprio lì dove Omero ha terminato la sua: a Itaca, a casa. Ulisse è sporco del sangue dei Proci che ha appena finito di sterminare. Penelope lo guarda e rimane sgomenta: «Non è questo», pensa, «l’uomo che ho atteso per tanti anni». E Ulisse a sua volta, dentro di sé: «“Mio cuore, questa è la donna per cui smaniavi lottando contro i mari”». Quell’uomo atteso tanto a lungo, quella donna per cui inferni e paradisi sono stati superati, non sono affatto quello che si aspettavano e ricordavano.

Per Ulisse tornato dal viaggio l’isola è piccola, la moglie scialba, il figlio debole e vacuo. Niente gli basta più: esiste qualcosa di più moderno, un’esperienza più contemporanea di questa incontentabilità? Come per noi in quest’ultimo anno: muore un’immagine del mondo, un racconto si spezza: ma quel trauma diventa l’inizio di un racconto diverso e di un viaggio nuovo.

Ulisse metterà insieme un nuovo equipaggio e viaggerà nell’altra direzione: andrà a Sparta e riproverà a rapire Elena. Regressione o sogno del futuro? Ricerca di una nuova guerra o di una nuova pace? Crocetti mi risponde riportandomi il canto XVI dello stesso Kazantzakis: «La patria mi stava stretta, sentivo oltre le sue rive / altre patrie dagli occhi ridenti, altre anime carnose, / tristezze e gioie di ogni sorta, fratelli e sorelle, / che sedute sulle rive aspettavano il mio ritorno! / Che tu sia benedetta, vita, per non essere rimasta / fedele a un solo matrimonio, come una donnicciola; / è buono il pane del viaggio e l’esilio è miele, / per un istante eri felice, godevi ogni tuo amore, / ma presto soffocavi, e a ogni amante dicevi addio. / Anima, la tua patria è sempre stata il viaggio! / La virtù più fertile al mondo, la santa infedeltà...».

«Kazantzakis», spiega Crocetti, «aveva tradotto la Commedia di Dante in greco, e aveva fatto propria la sua lezione: “Fatti non foste a viver come bruti / ma per seguir virtute e canoscenza”. Ha trasformato l’Ulisse omerico da ostaggio del volere degli dèi e da trastullo della sorte in un uomo padrone del suo destino, al centro del proprio desiderio. Un uomo che si batte, se non per cambiare il mondo, per immaginarne uno migliore e più giusto. A dispetto di tutto e di tutti». Un esempio? «Alla vigilia di una battaglia campale contro un esercito preponderante, uno dei suoi uomini gli dice: “Ulisse, non possiamo combattere questa battaglia domani, perché è persa in partenza”. Risponde Ulisse: “Proprio per questo dobbiamo combatterla”».

 

© Riproduzione riservata