Quella volta che il padre Vittorio ha recitato in un horror erotico di Warhol. Il rapporto con Alberto Sordi e Cesare Zavattini. L’amicizia con Carlo Verdone. E un rimpianto: «Papà non ha potuto vedere il mio più grande successo». L’artista racconta la sua vita in forma di aneddoti come fosse uno spettacolo di varietà
- Christian De Sica è nato a Roma il 5 gennaio del 1951 ed è il figlio di Vittorio e dell’attrice spagnola Maria Mercader. È sposato con Silvia Verdone, sorella di Carlo, e ha due figli: Brando e Maria Rosa.
- Inizialmente attratto dalla musica, nel 1973 partecipa al Festival di Sanremo cantando Mondo mio. Debutta al cinema recitando in Paulina 1880 (1972), diretto da Jean-Louis Bertuccelli. La consacrazione arriva nel 1983 con Sapore di mare diretto da Carlo Vanzina. Nello stesso anno recita nel suo primo cinepanettone, Vacanze di Natale.
- Raccontando di sé nel libro Figlio di papà uscito nel 2008 (Mondadori), ha detto: «Sono un saltimbanco, mi sento un attore. Mi sento uno showman. Un commediante. Uno che canta, recita, balla. Quando si fa questo mestiere, si dovrebbe saper fare tutto. Un po’ anche mio padre era così, la scuola è quella. Poi certo, c’è chi gli riesce meglio e chi gli riesce peggio».
Christian De Sica racconta la sua vita come fosse un grande spettacolo di varietà fatto di aneddoti meravigliosi. Li racconta spesso, in tv da Fazio, nello spettacolo che ne ha tratto, nel suo libro, agli amici. Di Christian sono amico da anni e questo montaggio lo abbiamo fatto assieme, pochi giorni fa. Molti me li aveva già raccontati, alcuni sono inediti ripescaggi dalla memoria. De Sica è l’unico comico post moderno che abbiamo, capace di giocare con le battute e i movimenti di Alberto Sordi e del padre Vittorio, rileggendoli e reinventandoseli. Tra eleganza naturale e sublime volgarità, è lo specchio di come è cambiata l’Italia dagli anni Ottanta a oggi. Post moderna è pure la sua vita, che compendia quella del padre e copre due secoli: un cortocircuito dal neorealismo all’appuntamento fisso dei film di Natale. Tiene assieme, nella stessa vita, la Garbo e la Dietrich, Rossellini, Zavattini, Maccari, Buñuel, Flaiano, Fellini, Pasolini, Sordi, Risi, Leone e Verdone, Boldi, Jerry Calà, i Vanzina e Neri Parenti. Ladri di biciclette e Vacanze di Natale. Ci riesce solo lui.
Beppe Cottafavi
Andy Warhol
Nel 1974 mio padre venne chiamato da Andy Warhol, che era in Italia a fare un piccolo ruolo in un film che si chiamava Dracula cerca sangue di vergine... e morì di sete!!! Protagonisti Udo Kier e il pornoattore Joe Dallesandro. Mio padre non aveva la più pallida idea di chi fosse Andy Warhol. Il regista era Paul Morrissey, personaggio cruciale della pop art americana, manager dei Velvet Underground di Lou Reed.
Il film era ideato da Andy Warhol, che voleva fare un horror erotico in 3D. Era tutto un giro di gay newyorkesi, molto snob, che faceva cinema spendendo il nome di Warhol. Mio padre accettò, diceva sì a ogni proposta pur di guadagnare soldi per andarseli subito a giocare. Fu la sua ultima interpretazione, morirà pochi mesi dopo. Nel cast, in un cameo, c’è anche Roman Polanski, che stava girando Che? lì vicino, e c’è Milena Vukotic.
Papà firmò il contratto, arrivò sul set, il giorno del primo ciak, vestito fine Ottocento, si avvicinò a Morrissey abbracciandolo e dicendogli caro Andy Warhol. No De Sica, guardi che Andy Warhol è quell’altro coi capelli bianchi tipo presbitero. Insieme a Warhol e Morrissey c’erano altri due gay vestiti con una t-shirt bianca e dei jeans dorati. Con loro il direttore della fotografia, unico amico di mio padre, Luigi Kuveiller. Ciak. Morrissey, il regista, dà indicazioni a mio padre. Non c’era il copione, tutto improvvisato. «Allora De Sica lei si siede su quella poltrona e fissa Stefania Casini, sdraiata sul letto, per cinque minuti senza proferire parola».
«Bene – dice Vittorio – cinque minuti senza parlare. Bene». Poi rivolto al suo amico: «Luigi, mi assicuri che questi sono quattro froci americani!». Fu solo l’inizio.
La musica
Prima del cinema, della tv, del teatro, c’è stata la musica. Con la complicità di mia madre suonavo in un’orchestrina. Papà voleva studiassi ma io scappavo a cantare nelle feste di piazza, nei locali, il mio batterista era Massimo Boldi. Un cane, molto meglio come attore. Però una sera andammo a suonare allo Sporting Club di Montecarlo. Non puoi capire l’emozione. Quando sono entrato in scena ho visto che ai tavoli erano seduti personaggi illustrissimi te ne cito due: Grace Kelly e Rudolf Nureyev. Ero terrorizzato, poi per fortuna è andata bene, alla fine del concerto papà mi ha abbracciato e ha detto: «Sei bravo, posso morire sereno».
Cesare Zavattini era un uomo diverso dagli altri. Molto più colto di mio padre, mi guidava tra i libri. Sono cresciuto passando molto tempo con lui. «Che leggo?», gli ho chiesto. «Il Capitale. Basta. Leggi solo quello». Era un comunista mio padre, però baciava per terra, la terra santa. Un comunista superstizioso e cattolico. Comunista lo era anche prima dell’incontro con Zavattini. La manifestazione dei pensionati a Roma, all’inizio di Umberto D, è una scena memorabile che esprime bene i loro sentimenti politici. Era il film preferito di mio padre, anch’io penso sia il suo capolavoro. Forse non è perfetto come Ladri di biciclette.
Costretti a recitare
Mio padre era un grande frequentatore di Montecarlo. Da gran giocatore qual era, era uno dei suoi luoghi preferiti, quando arrivava l’estate a me e mio fratello Manuel diceva: ragazzi, dove andiamo quest’anno? Scegliete: Campione, Lugano, Sanremo o Montecarlo? Noi sceglievamo i posti dove c’era il mare. Una volta il principe Ranieri gli disse: vede De Sica, con quello che ha perso ieri sera noi rifaremo tutte le aiuole di questo lungo viale.
Papà ci scherzava e proprio quella sera del concerto mi mise una mano sulle spalle e mi disse: Christian vedi quel viale? Un giorno tutto questo sarà tuo. Di lui ho amato più i difetti che i pregi. La sua grandezza la conoscono tutti. Non giocava con noi quando eravamo bambini. Non ci portava al campetto di calcio, era già anziano, ci faceva recitare, a me e a mio fratello ci metteva in testa un cilindro e scriveva delle scenette. Una si chiamava Cittadini che protestano, un’altra Suicidi.
Metteva le sedie in fila in salotto, invitava i suoi amici, Paolo Stoppa e Alberto Sordi, e noi costretti a recitare, sembravamo due cornacchiette con tuba e fracchettino. Loro si divertivano, noi un po’ meno.
«Vedi, quando scrivi un periodo, se tagli a metà di quella frase che hai scritto, è più forte e funziona sempre meglio: oppure non funziona? Ribalta tutto. Fai il contrario e vedrai che funziona. Perché ricordati una cosa, Christian – mi ha detto una volta Ennio Flaiano – molte volte i registi si incazzano con voi attori perché la battuta non viene bene. La provi e riprovi. La rifai. La colpa non è tua, è la battuta che è una merda».
Alberto Sordi
Alberto Sordi fa parte della mia vita. Ha rivoluzionato la comicità, non aveva bisogno di trucchi, bastava un’espressione, un tono, uno sguardo per farti ridere. Da giovane feci un ruolo nel suo Malato immaginario, il mio personaggio si chiamava “dottor Cagherai” avevo un culone e un parruccone, ero emozionatissimo.
Il primo giorno sul set, presi una papera, Alberto mi disse: «Che fai te sbagli? Guarda che te faccio doppia’ da Panigali». Panigali era un grande doppiatore dell’epoca. Dopo molti anni, lui era già anziano, lo volli come guest in un mio film di Natale. Dovevamo preparare il filmato promozionale, e dovevamo doppiare delle piccole battute, lui non si sentiva sicuro, ricordo che mi disse: «Per favore quando tocca a me dammi un colpetto sulla spalla e io attacco. Lo feci, ma prima di farlo gli dissi: Alberto, guarda che se ti sbagli ti faccio doppiare da Panigali». Quanto mi manca.
Era e resta meraviglioso.
Compagni di scuola
– Ci vieni in banco con me?
– Perché? –, mi chiede lui.
– Perché c’ho tutte le versioni di greco tradotte.
Avevo corrotto il professore che mi faceva ripetizioni il pomeriggio. Mi aveva smerciato le traduzioni dei compiti di greco che ci avrebbero dato a scuola durante l’anno nei compiti in classe. Per cinquantamila lire.
– Fammele vedere – mi dice scettico.
E io le tirai fuori. Già stampate su un quadernetto orizzontale come un libretto degli assegni, tutte tradotte.
– Siediti – concesse lui.
Era fatta.
– Christian – mi presento.
– Carlo – si presenta lui.
– De Sica.
– Verdone.
In carne entrambi. Eravamo fra i banchi del mitico liceo Nazzareno. Io avevo perso un anno e mi ritrovai in una classe sconosciuta, adocchiai quello che mi sembrava il più simpatico. Il pomeriggio andavo a casa sua a studiare e conobbi Silvia, sua sorella, aveva 14 anni, m’innamorai. Carlo non era d’accordo, «sei un puttaniere», mi diceva, «quella è una ragazzina».
Un giorno venni convocato a casa Verdone, andai e mi ritrovai il padre, il grande Mario, grande studioso di Futurismo e di cinema, professore alla Sapienza, la madre e un prete. Spiegai con enfasi il mio amore per Silvia, «la amo, la amo, la amo», dissi con tono appassionato. «Che buffone!» esclamò severo il professore. Quell’amore è ancora qui, abbiamo due splendidi figli Brando e Maria Rosa.
Roma e Zero
Roma l’ho anche cantata, insieme a Sabrina Ferilli. Insieme a lei e a Renato Zero alle prese con quel capolavoro di Armando Trovaioli Roma nun fa la stupida stasera tratta dall’immortale commedia musicale Rugantino di Garinei e Giovannini.
Con Renato ci conosciamo da ragazzi, uscivamo insieme la sera, andavo sotto casa sua con la mia ragazza di allora, lui figlio di un commissario di Polizia, scendeva vestito di tutto punto, apriva il cofano della 500 si toglieva i vestiti si infilava una tutina aderente si metteva una piuma in testa e andavamo a ballare al Piper. Adesso quando fa i suoi concerti chiama me e Sabrina per cantare questa canzone.
Un assassino in famiglia
Ho un assassino in famiglia. Ramón Mercader, zio di madre Maria, è l’agente stalinista che fracassò il cranio di Trockij. Con una picconata. In Messico. Il suo nome completo Jaime Ramón Mercader del Río Hernández. Bel nome ricco di suggestioni romanzesche per un agente del Kgb che si era esercitato a Mosca nelle arti del sabotaggio, della guerriglia, dell’omicidio.
Scappato dal Messico visse tra Mosca e Cuba. Insignito con la medaglia di eroe dell’Unione Sovietica è sepolto a Mosca.
Napoli
In questo viaggio fra presente e ricordi, fra luoghi e musica, da Roma mi trasferirei a Napoli, città che mio padre Vittorio ha regalato al mondo attraverso i suoi capolavori. Ha girato film nei vicoli, nei quartieri dove risuonano rumori, urla, musiche, difficilissimo trovare il silenzio, mio padre ci riusciva, forse per quell’amore corrisposto che aveva con i napoletani. Prendeva il megafono chiedeva il silenzio e miracolosamente in quei vicoli sembrava non volare una mosca. Poi al suo «Grazie», mille voci si alzavano in un fortissimo: «Prego».
Napoli è unica. Un giorno, e questo episodio lo racconto nel mio ultimo film Sono solo fantasmi, ero alla stazione, andavo verso un taxi, un signore distinto mi si avvicina
– Signor di De Sico – mi dice
– Buonasera – rispondo
– Signor di De Sico, cosa pensa del nostro sindaco?
– Mi sembra una brava persona.
– E del Napoli?
– Non è più la squadra di Maradona.
Arrivo al taxi, faccio per salutarlo e lui mi blocca.
– Come non mi date niente?
– E cosa dovrei darvi?
– Ma come? Questo è il mio mestiere!
– E quale sarebbe scusi? – gli chiedo.
– Tenere compagnia.
Anche questa è Napoli.
Fra i tanti film dedicati e girati a Napoli mi viene in mente di mio padre Matrimonio all’italiana tratto dal capolavoro di Eduardo De Filippo Filumena Marturano, protagonisti Marcello Mastroianni e Sophia Loren. I titoli di coda erano accompagnati da una bellissima canzone cantata da Fred Bongusto, O cielo ci manna sti cose.
Due famiglie
Come in un film, mio padre aveva due famiglie, due donne. Noi non lo sapevamo. Così a Natale veniva da noi, mangiava cappelletti, cappone, panettone poi scappava dall’altra parte di Roma e con l’altra famiglia mangiava cappelletti, cappone e panettone.
Un giorno squilla il telefono e una voce mi dice: «Ciao Christian sono tua sorella, mi chiamo Emy, incontriamoci oggi a villa Glori». Sono andato e così ho scoperto di avere una sorella. Quando sono tornato, papà terrorizzato mi ha chiesto: «Cosa ti ha detto?» «E cosa mi ha detto?» gli ho risposto, «mi ha detto che è nostra sorella». Ma posso capirlo era del 1901, un uomo d’altri tempi.
Una notte, squilla ancora il telefono, rispondo, una voce di donna in spagnolo mi dice: «Sono Vittoria, tua hermana». Vado da mio padre e chiedo spiegazioni. Lui mi racconta di un’attrice spagnola alla quale recitava le poesie di Lorca. Era fatto così.
Chaplin
Anche nel luogo e nel giorno più triste ne ho scoperta un’altra. Al cimitero, eravamo tutti lì per la sepoltura quando vedo una culona piegata sulla lapide che poggiava una madonnina luminosa, si volta, aveva la faccia mia. Identici. Ci guardiamo e le chiedo: «Ma lei chi è, scusi?» «So’ Ines la figlia della sarta», mi risponde.
Questo meraviglioso uomo, mio padre Vittorio, che ha regalato quattro Oscar al nostro cinema, che amava il gioco, la vita, le donne, mi ha permesso incontri eccezionali. Lui era del Novecento, quando sono nato era vecchio, questo mi ha consentito di vivere una vita lunghissima, tra due secoli.
Un pomeriggio, avrò avuto tre anni, ero a Via Veneto con mia madre, papà era in ritardo, mamma parlava con un anziano signore che per farmi divertire, faceva alzare e abbassare la sua bombetta. Arriva papà e gli chiedo: «Ma chi è ‘sto vecchio scemo?» Era Chaplin.
Zavattini
Da ragazzino Zavattini mi portava a Luzzara. Aveva una macchina americana comprata coi soldi del cinema. Partivamo da Roma, mi veniva a prendere la mattina presto, io e lui. Arriviamo a Luzzara e ci fermiamo davanti alla casa di Ligabue. Escono dei bambini che urlano: «Ha mangiato il topo, ha mangiato il topo!».
Anch’io ero un bambino, entro e ho visto questo contadino, piccolo piccolo, mal vestito, davvero malmesso, gli occhi da matto, che stava dipingendo un quadro con una motocicletta. Mi ha detto: «Allora vogliamo comprare due o tre quadri? Ne ho anche con le tigri». «Ma io, Cesare, non c’ho i soldi, sono un bambino!». Siamo andati via. Così.
Dove c’era figa
Una volta uscivamo da casa sua, a Roma in via Sant’Angela Merici, piena dei suo celebri quadrettini 8x10 chiesti a tutti gli artisti del mondo, Fontana, Burri, Balla, De Chirico, Savinio, Capogrossi, Severini, Rosai, Casorati, Sironi, Mafai, Soffici, De Pisis, Campigli, Afro, Consagra, Depero, Guttuso, Sassu, Manzù, Leoncillo, Melotti, Marini, Schifano, Vedova, Rotella, Festa, Munari, Pistoletto, ma anche le opere di letterati e intellettuali.
Il piccolo formato è dovuto alle ristrettezze economiche ma, secondo Za, è nella piccola dimensione che l’artista concentra il meglio della sua arte. Zavattini commissiona ogni opera ma lascia libertà di scelta di materia, tecnica e soggetto. Bene uscivamo da quella casa museo e c’era una povera disgraziata, brutta, i peli lunghi sulle gambe, portava due secchi d’acqua. Mio padre gli fa, per scherzare: «Cesare ma quella ti piace?» «Ostia, orca se mi piace». Timidissimo. Dove c’era figa tutto gli piaceva. Perdeva la testa. Era pazzo di Moira Orfei.
Braccio a ombrello
Vittorio era amico fraterno di Rossellini, i padri del Neorealismo. Io sono stato fidanzato con Isabella, figlia di Roberto, di ricordi ne ho tanti. Una sera stavano vedendo insieme a casa nostra in tv la notte degli Oscar, presentava Lello Bersani, fra i candidati c’era Nanni Loy.
Rossellini chiedeva a papà chi fosse questo giovane giornalista. Sembravano contenti della possibile vittoria di un italiano. Ma quando Bersani disse: «Purtroppo il nostro Loy non si aggiudica la statuetta», dalla contentezza papà e Rossellini s’alzarono in piedi a spernacchiare e fare tiè col braccio a ombrello come due bambini. Ho capito allora che anche i grandi hanno queste umane debolezze.
Wanda Osiris
Wanda Osiris. Magnifica ma non bella, se la guardi bene sembra Alberto Sordi, ma è stata il sogno della ricostruzione. Si usciva dalla guerra, ha rappresentato la rinascita. Famosa per i suoi vestiti, per la discesa dalle scale, i mazzi di rose, il profumo, la cipria. Andammo una sera nel suo camerino, io e mio padre, era molto avanti con gli anni e completamente sorda.
Entrammo, lei felice di vedere papà lo salutò con affetto, con quel suo birignao lo riempì di convenevoli. Papà le prese la mano e sostenendo la voce le disse: «Wanda, Wanda, lei stasera ci ha regalato due ore di autentica felicità». E lei in un fiato sentenziò: «Caro De Sica un pezzo di cazzo si trova ovunque». Chissà cosa cacchio capì. Una vita la sua dedicata a queste tavole, a questo spazio magico che è il palcoscenico.
Da oggi se magna
All’inizio ho faticato, non dico sofferto la fame ma quasi. Quando De Sica è morto, non c’era una lira, s’era giocato tutto. Non è stato facile, pagavamo l’affitto con la paga che Silvia riceveva da piccole cose che faceva per la televisione. Io cantavo Bella ciao alle feste dell’Unità. Poi è arrivata la svolta, devo molto a Carlo e Enrico Vanzina, anche se citava sempre Proust, due palle. Eravamo alla proiezione del primo Vacanze di Natale, alla fine della visione guardai mia moglie e le dissi: «Silvie’ da oggi se magna».
Anche Silvia amava molto Proust, ma a me m’aveva rotto il cazzo. Mi piacevano le biografie e i saggi. Mi divertivano i libri di Flaiano. E Oscar Wilde. L’ho letto tutto.
L’amico intellettuale
Ho una scatola d’argento con una foto di mio padre con Louis Buñuel. Erano amici. Si stimavano. L’amico intellettuale di mio padre, oltre a Zavattini, è stato però René Clair. Anche la moglie era amica di mia madre, andavamo nella loro casa di Saint-Tropez dov’è sepolto in giardino, sotto una mimosa, Gérard Philipe.
Dadaismo e scomposizione: gli anni e il contesto erano quelli degli esperimenti letterari di Joyce e di quelli musicali di Stravinskij. Cast di grandi star dell’avanguardia come Picabia, Marcel Duchamp, Man Ray, Erik Satie. Chi l’avrebbe detto che sarei diventato ricco e famoso con Sapore di mare e il cinepanettone?
Casanova
Dovevo fare Casanova con Fellini. La mia fotografia è stata nel suo ufficio per molti mesi. Poi De Laurentiis ha preso Donald Sutherland. Ma Federico aveva pensato a me. Lo incontravo a casa di mio suocero, Mario Verdone, e una volta gli dissi: «Aiutami Federì, che mi so’ stufato di fare ‘sti filmacci». «Ma sta zitto, che fai il cinema. Il cinema è bello tutto».
Intelligentissimo, molto spiritoso e bugiardo. Bugiardissimo. Fregnacciaro come tutti i grandi registi. Andiamo a cena dalla Cesarina, lui andava sempre lì a mangiare, e c’aveva il copione, lo apre Fellini Casanova e dentro c’era la mia fotografia, tutto brillantinato. «Hai visto chi sei? Sei Casanova. Christian ti faccio fare Casanova». Poi un giorno mi chiama: «Sai Dino ha voluto quella mazzancolla di Donald Sutherland». ‘Na mazzata.
Le ultime parole
Mio padre non ha potuto vedere il mio più grande successo. La cosa di cui vado più fiero è di essere popolare, di essere amato dai ragazzi che per strada mi gridano: «Ah Crì, bella zio». Penso spesso a quante cose avrebbe potuto dirmi papà, se ne è andato troppo presto. Avevo 23 anni. Ero a Milano a fare uno spettacolo. Lui era a Parigi, ricoverato. Mi chiamò mia madre, «papà sta peggiorando. Cerca di venire», feci lo spettacolo.
Quando sei sopra il palco l’adrenalina ti fa dimenticare tutto. Sei come anestetizzato. Poi il crollo. Scappai a Parigi. Entrai nella sua camera. C’era un’infermiera che riordinava, nell’armadio pendeva il suo vestito blu. «Appena starò meglio andremo a Montecarlo», mi disse. Chiese un goccio di whisky, lui in genere beveva soltanto vino, forse gli servì per prendere l’ultimo coraggio.
Dopo qualche minuto tornò a parlare: «Christian tu hai la testa sulle spalle, tuo fratello Manuel è un musicista, stai vicino alla mamma, lei è come una bambina. Mi raccomando, non lasciarla sola. E guarda che bel culo c’ha quell’infermiera».
(testo a cura di Beppe Cottafavi)
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