Il regista milanese porta al cinema dal 27 marzo il romanzo di Rosella Postorino, premio Campiello nel 2018. «Gli echi del presente si sono infiltrati nel film, La vicenda vera di queste donne costrette ad assaggiare i cibi del Führer, mentre imperversa la fame, è complessa e piena di contraddizioni. Ci fa riflettere sul pericolo del totalitarismo. Però mi chiedo: che cosa avrebbero potuto fare? Scappare?»
Proteggere con il proprio corpo la vita del Fuhrer. Questa era la missione imposta a un gruppo di donne tedesche precettate dalle SS per assaggiare i raffinati pasti di Hitler nel caso fossero avvelenati. In cambio, 200 marchi al mese e il lusso di poter morire a stomaco pieno in una Germania affamata dalla guerra.
Ispirato alle confessioni di Margot Wölk, Le assaggiatrici di Silvio Soldini è l'ambizioso adattamento cinematografico del best seller internazionale di Rosella Postorino, vincitore del premio Campiello 2018. Il film, presentato in anteprima alla 16esima edizione del Bif&st del neo direttore Oscar Iarussi, esplora con grande rigore tutti gli aspetti dell'orrore nazista al suo apice: la violenza, la negazione del libero arbitrio, la misoginia, la caccia e lo sterminio degli ebrei in una Germania stordita dalle privazioni. Al cinema con Vision distribution dal 27 marzo.
Che cosa ha spinto un cineasta del presente come lei a fare un viaggio nella storia, nella Germania del ‘43?
È stato il romanzo di Rosella Postorino che mi è stato proposto per farne un film, e come mi era già successo con Ágota Kristóf quando ho fatto Brucio nel vento, ho sentito che quelle pagine potevano trasportarmi in territori in cui non sarei andato naturalmente. Questo adattamento è stato più complesso, abbiamo dovuto fare tagli e scelte per la sceneggiatura e ci siamo concentrati il più possibile sull’aspetto intimo del racconto, sul microcosmo di queste donne che ogni giorno dovevano assaggiare il cibo di Hitler, come se stessero giocando alla roulette russa. Abbiamo lasciato gli avvenimenti storici fuori campo anche per questioni di budget ed è stata una vera sfida perché era importante far sentire l’avanzare della guerra. Ho lavorato molto sul peso drammaturgico della musica, sui suoni in sottofondo dei treni, degli aerei, le urla dei soldati. È tutto molto accennato ma credo che lavori sull’inconscio.
Pensando a un fuori campo viene per forza in mente La zona di interesse di Jonathan Glazer, in cui l’orrore di Auschwitz dietro alle mura della villetta con giardino della famiglia Höss viene raccontato attraverso il suono. Un rumore assordante per lo spettatore ma impercettibile e banale per il generale e sua moglie. È un film che parla chiaramente anche del nostro presente, anche il suo?
Il film di Glazer mi ha colpito molto, riflette sulla distanza tra lo spettatore e la storia, tra i protagonisti, tra quella casa così tranquilla e il male che è lì a due passi. Gli echi del presente si sono infiltrati con prepotenza anche durante la gestazione di questo film, con le guerre in atto o quando c’è stato l’attentato a Trump. Il suo: «Dio mi ha risparmiato per un motivo» richiama in modo allarmante il discorso di Hitler dopo essere scampato all’attentato di Stauffenberg nel ’42. Parlava di provvidenza divina che lo avrebbe portato alla vittoria, e a un certo punto lo si sente per radio anche nel mio film. La vicenda vera di queste donne costrette ad assaggiare i cibi del Führer, mentre imperversa la fame, è complessa e piena di contraddizioni e ci fa riflettere sul pericolo del totalitarismo. Qui fa da sfondo il nazismo, ma è una storia che si potrebbe benissimo raccontare tra vent’anni in un film distopico, funzionerebbe ugualmente.
Lei è uno dei rari registi italiani che mette in scena dei personaggi femminili dalle mille sfaccettature. Il cinema è donna?
La sensibilità pronunciata delle donne mi tocca molto, è una qualità che hanno probabilmente sviluppato per il ruolo che ricoprono all’interno della nostra società. In generale riesco a entrare molto più facilmente in contatto con loro, nel senso che ho molte più amiche donne. Questo mi porta naturalmente a creare un legame più profondo con le mie attrici, ammetto che sono pochi gli attori uomini con cui riesco a instaurare un tale livello di fiducia e di comunicazione. In questo film ho avuto veramente sette attrici speciali, francamente non so se in Italia sarei riuscito a farlo con questi risultati.
Perché? Le attrici italiane non sono abbastanza brave?
Ma no, non la metta in questi termini. Questa volta mi sono trovato di fronte a sette giovani attrici con una generosità unica, si sono totalmente fidate di me, senza conoscermi. Prima delle riprese abbiamo fatto due settimane di prove in cui abbiamo immaginato e costruito il passato dei loro personaggi. Così quando abbiamo iniziato a girare erano già in parte e avevano creato un legame di gruppo che mi ha aiutato molto, soprattutto durante le riprese a tavola. Non sa che ansia dover riprendere persone sedute a tavola. Erano piene di proposte e non hanno avuto paura di sporcarsi, invecchiarsi e imbruttirsi. In Italia molti attori hanno paura di cambiare e di rimettersi in gioco, anche per colpa di alcuni registi e produttori che li vogliono per quello che hanno sempre fatto.
Fin dove è lecito spingersi per sopravvivere?
Non credo che le assaggiatrici avessero scelta. L’autrice del romanzo insiste molto sul senso di colpa, soprattutto quello di Rosa, la protagonista. Però poi mi chiedo: che cosa avrebbe potuto fare? Scappare? Dove? In una situazione del genere cosa farebbe ognuno di noi? Forse si sentirebbe in colpa perché anche se è una cavia protegge un dittatore. Inoltre anche se rischi ogni giorno l’avvelenamento, mangi e sei pure pagato per farlo mentre il resto del mondo muore di fame.
Perché ha scelto il cinema per esprimersi, è stato un colpo di fulmine?
Ricordo che da ragazzo ho visto un po’ per caso dei film nell’ex cineteca di Milano di via San Marco, in cui andavo spesso perché non era lontana da casa. Mi resi conto vedendo alcune opere di Antonioni che il cinema mi trasmetteva qualcosa di molto forte che andava al di là della trama, mi rapiva per come era raccontato. Avendo da sempre avuto una scarsa capacità dialettica, ho capito che forse sarei riuscito, meglio che a parole, a raccontare qualcosa di me attraverso il linguaggio delle immagini. Dopo il liceo, non sapendo cosa fare, mi sono iscritto a Scienze politiche ma non combinavo un granché. Fu mio padre, che era un uomo autoritario di altri tempi, a reindirizzarmi verso la mia passione, mi disse: «Se ci credi veramente, provaci». Era un ingegnere e non aveva proprio nessun legame con il cinema. Sono salito da Londra su uno Skytrain della Laker, la prima compagnia transatlantica low cost, destinazione New York. Era il ‘79, avevo 21 anni è sono rimasto lì due anni e mezzo a studiare cinema e a divorare classici al Bleecker Street Cinema. Lì ho scoperto la nouvelle vague, il nuovo cinema tedesco, Billy Wilder, Bergman. Ed è lì che ho girato il mio primo corto di 2 minuti e mezzo con una cinepresa Bell e Howell in 16mm, senza audio. Quando lo feci vedere in classe tutti rimasero in silenzio, nessuno ci aveva capito niente. Fu una bella lezione. C’è sempre da imparare qualcosa, anche cambiando genere, dai film sperimentali (Paesaggio con figure, Giulia in ottobre) girati in stile “guerilla” sulla spinta di autori della new wave americana come Jim Jarmush e Amos Poe, ai documentari, alla commedia o, in questo caso, a un dramma in costume.
A proposito di commedie, il suo Pane e tulipani fu un successo di pubblico incredibile, anche negli Stati Uniti incassò 5,2 milioni di dollari. Se lo aspettava da un film che usciva fuori dai binari della commedia all’italiana?
Amo molto la commedia, è meraviglioso far ridere la gente soprattutto quando riesci a trasmettere anche emozioni più profonde. Pane e tulipani è stata la mia prima commedia, all’inizio mi sembrava di girare un’idiozia, una specie di cartone animato buffo che però, durante le riprese, mi faceva sbellicare. Ed era buon segno, perché alla fine il regista è veramente il primo spettatore del film, quindi se ride durante le riprese, a meno che sia pazzo, ci sarà pure qualcun altro che avrà la sua stessa reazione. Abbiamo avuto una libertà incredibile per quel film, anche se io non ero certamente una garanzia per gli incassi. Oggi in un sistema in cui tutti mettono becco su tutto, anche sulla singola battuta, sarebbe stato impensabile girare interamente a Venezia con un cast sconosciuto al grande pubblico. Dopo Le assaggiatrici ho deciso di tornare alla commedia, basta con la pesantezza, soprattutto in momento storico come il nostro.
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