Lo sappiamo bene: non potremo condividere mense affollate per il pranzo pasquale, ciò non toglie l’interesse per quanto metteremo nei nostri piatti. Per appuntamenti tradizionali come quello della domenica più importante del calendario cattolico, tale interesse si lega probabilmente più alla tradizione che alla fantasia. Ha senso parlare di tradizione nel panorama gastronomico italiano? Facciamolo, ma non prima di fornire una piccola nota chiarificatrice. Ce lo insegnò Pellegrino Artusi a cavallo di Otto e Novecento, ce lo ha ribadito con efficacia Massimo Montanari in diversi suoi studi: la cucina italiana si caratterizza nella varietà, nella libertà dei gusti, nella sperimentazione. Uno sguardo alle abitudini pasquali regionali conferma la complessità: focacce, agnolotti, risotti e crespelle, asparagi, capretti, torte salate e dolci, maccheroni, insalate, minestre, formaggi, salami, carciofi, crostate, pastiere. A ogni campanile la propria sequenza di portate, suggerita o imposta dalle abitudini, dalla territorialità e dalla stagionalità. Una ricchezza che ci avvicina all’infinito. A tenere assieme tanta varietà, solo accennata nell’elenco appena compilato, stanno da un lato quattro elementi diffusi quasi in ogni angolo dello Stivale (brodo, uova, agnello, colomba), dall’altro un’assenza: ovunque manca il pesce.

Cominciamo da chi c’è. Il simbolismo legato alla morte e resurrezione di Gesù caratterizza con forza le mense italiane, cristiane cattoliche per secoli e molto più di altre. Le uova sono simbolo della resurrezione: assomigliano al sasso, materia priva di vita per antonomasia, tanto da farne la porta chiusa del sepolcro di Gesù. Ma come quella porta miracolosamente si apre, così anche dall’uovo scaturisce la vita. L’agnello, innocente sacrificio, è immagine evangelica molto presente, mentre la colomba significa pace. Il brodo, più prosaicamente, bene si accompagna all’abbondanza di carne.

Proseguiamo con chi non c’è. Per secoli la Quaresima, tempo precedente la Pasqua, ha caratterizzato la vita del fedele con gli obblighi di digiuno e astinenza, rinuncia a ogni cibo per un periodo determinato il primo; eliminazione dalla dieta di alimenti specifici e di norma golosi o sostanziosi la seconda. Proprio l’astinenza segnò il trionfo gastronomico del pesce: già nelle comunità cristiane del primo secolo è testimoniata l’usanza di evitare il consumo di carne nel tempo dedicato alla penitenza. Perché la carne? Cibo tentatore: si pensava contribuisse ad accendere gli appetiti sessuali; cibo nutriente: la contrizione richiedeva di rinunciare a qualcosa di sostanzioso; cibo problematico: per mangiarne bisogna uccidere. All’inizio pure il pesce era proibito, ma le cose cambiarono presto e lasciarono spazio alla fantasia in cucina. Insomma, di pesce ci si stufa in Quaresima e a Pasqua si può finalmente dare libero sfogo alle voglie carnivore.

Il tempo del pesce

Pasqua sta per arrivare, siamo ancora nel tempo del pesce e cerchiamo di approfondire raccontando qualche storia. Fu il naufragio del mercante veneziano Pietro Querini (?-1448) a portare il merluzzo sulle sponde del mediterraneo. In viaggio attraverso i mari settentrionali per faccende mercantili, la nave capitanata da Querini fu sorpresa da una tempesta all’altezza del canale della Manica. Alcuni naufraghi approdarono (4 gennaio 1432) sulla gelida isola di Røst, arcipelago delle Lofoten. Mentre i sopravvissuti della ciurma si dimostrarono molto interessati alla popolazione femminile dello scoglio, a leggere il diario di Querini lui si concentrò invece sulla scoperta del merluzzo, delle sue tecniche di conservazione (essiccazione/stoccafisso e salagione/baccalà), delle capacità nutritive e potenzialità commerciali. Decise allora di immetterlo sul mercato dopo il suo ritorno a Venezia. Ebbe grande fortuna e un nuovo protagonista poteva affacciarsi alle tavole di magro dell’Europa cattolica.

In quegli stessi anni, gli inglesi (ancora non si erano staccati dalla Chiesa di Roma e dalle sue regole alimentari) celebravano l’aringa, pesce pieno di qualità: abbondante e facile da pescare alla luce della consumata abitudine di raggiungere le coste in enormi banchi con periodicità prevedibile e puntuale, semplice da salare, seccare, depositare, comprare a buon prezzo. King Harring, la chiamavano, e cerimonie simboliche ne prevedevano l’innalzamento al trono il mercoledì delle Ceneri e la deposizione la domenica di Pasqua.

Sacrificio e celebrazione

Tutto molto buono questo pesce, tutto molto interessante… ma pur sempre una limitazione alle possibilità di scelta; ma limitazione per chi? Il digiuno e l’astinenza cattoliche erano sovente guardati dai poveri come un lusso dei ricchi, i quali neppure si accorgevano di rinunciare alla carne e ai condimenti grassi perché li potevano sostituire con piatti raffinati a base di pesce, con dolciumi di ogni sorta, innaffiati da caraffe di ottimo vino. Il vino, infatti, compariva tra i divieti quaresimali solo nelle diete più estreme per due ragioni fondamentali: era bevanda sacra per il cristiano; il sapere medico coincidente con la tradizione scritturale, risalente a san Paolo, lo considerava sano e indispensabile. I più poveri non nuotavano certo nell’abbondanza delle opzioni. Testimonianze del Regno di Napoli agli inizi del Diciannovesimo secolo raccontano di contadini che si accostavano a buone bistecche di ovini e suini soprattutto in rare occasioni: Pasqua e Natale, battesimi e matrimoni, carnevale. Un’altra opportunità di abbondanza stava nel tempo della mietitura, quando i possidenti offrivano pasti generosi ai lavoranti ingaggiati in modo da incentivarli e compensarli con un solo gesto.

Arriviamo alla Pasqua d’abbondanza. Lo era anche per un asceta della tavola come Benedetto da Norcia (480 ca-547) che, pur imponendosi un rigoroso regime alimentare (pane e acqua), sapeva salutare la gioia della resurrezione arricchendo la propria mensa e accettando gli inviti dei devoti: rifiutare il cibo nella santa ricorrenza avrebbe costituito un affronto alla grazia divina. L’alternanza tra momenti di sacrificio e di celebrazione rimarrà assai evidente per secoli nella morale cristiana.

Oggi di carne e pesce si parla poco, ci sono certo le norme del codice di diritto canonico, secondo le quali tutti i fedeli sono tenuti a fare penitenza in determinati tempi dell’anno e con il rispetto dei diversi bisogni personali. L’attenzione dottrinale si è però spostata dalla tavola ad altri ambiti del quotidiano. I messaggi quaresimali del papa e dei vescovi usano il discorso figurato. Vi sono stati inviti all’austerità digitale, al prendersi una pausa dall’eccesso di informazioni, da smartphone e app, per dedicarsi alla riflessione su sé stessi e sul proprio posto nel mondo. Insomma, il credente che mangia una bistecca in Quaresima leggendo il tablet è possibile venga richiamato da un immaginario confessore non per quanto sta infilzando sulla forchetta, ma per quello che sta virtualmente sfogliando.


Claudio Ferlan è autore del libro Venerdì pesce. Digiuno e cristianesimo, edito da il Mulino

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