- Si può scrivere di tutto, ma non di classi sociali. Non c’è rappresentazione che non sia prodotta e destinata alla classe media.
- L’imperativo a “cavarsela da soli” non solo non risolve le diseguaglianze, ma aumenta la sofferenza psicologica, il disagio, la rabbia.
- La sinistra italiana deve iniziare a dare una rappresentanza a questa “melanconia di classe”.
«L’aspetto peggiore della vergogna è che si crede di essere gli unici a provarla» ha scritto una volta Annie Ernaux. L’ha fatto in un memoir del 1997, La vergogna appunto (in Italia disponibile per L’Orma), in cui ricorda un episodio della sua infanzia, un gesto violento del padre verso la madre. È l’indicibile trauma dell’infanzia, il momento in cui diviene consapevole di uno spartiacque, che le fa scoprire – attraverso lo sguardo di disapprovazione delle compagne di scuola borghesi – di essere nata dalla parte sbagliata della società.
Il discorso sulla classe è stato cancellato dal discorso pubblico, e reso letteralmente invisibile in quello culturale. Anche per questo il Nobel a Ernaux, che invece l’ha sempre messo nella sua opera, è stato tanto potente e inaspettato, almeno in Italia. Perché, se il conflitto tra classi sociali è la gabbia dentro cui siamo e i cui effetti ci stanno rovinando la vita in maniera molto concreta e quotidiana, ne siamo così ciechi?
Questa macina costante di corpi, esistenze, aspirazioni produce della rabbia, certo, del risentimento che non trova però articolazione, non trova sbocchi. Per mancanza di rappresentanza politica, sì, ma anche per mancanza di rappresentazioni che a questo dolore possano dare un nome. Il fatto è che la sinistra italiana ha rinunciato, da un paio di decenni almeno, allo scontro anche sul piano delle rappresentazioni. Al di là delle scelte – più o meno consapevoli, più o meno convincenti – dei singoli artisti o operatori culturali, quando va bene. E così la rabbia, la fatica, l’ansia, la frustrazione, vengono facilmente cavalcati da populismi e sovranismi.
Il fantasma della classe
Melanconia di classe di Cynthia Cruz (Blu Atlantide, traduzione di Paola De Angelis) ha la capacità di riportare l’attenzione del lettore su tutto questo in maniera molto efficace. Più che per la profondità di analisi o la dottrina scientifica (nel caso meglio rivolgersi al recente La sfida delle disuguaglianze. Contro il declino della sinistra di Carlo Trigilia, il Mulino), la forza di Melanconia di classe sta nel suo essere diretto, quotidiano, nel suo partire dall’esperienza, e quindi anche da una dimensione biografica, soggettiva, sentimentale, psicologica.
I riferimenti del libro sono naturalmente legati alla società americana e anglosassone in generale, ma, al di là dell’egemonia e diffusione di quella cultura, soprattutto a livello pop (da Amy Winehouse a Ian Curtis), si tratta di riferimenti facilmente traducibili al nostro quotidiano, proprio perché concreti. Perché tutti ci siamo sentiti inadeguati in un certo contesto, o circondati da persone che davano per scontato vacanze, settimane bianche, viaggi all’estero che non sapevamo neanche si potessero fare.
Cruz racconta la propria storia di figlia della working class, dei salariati, attraverso i vari passaggi scolastici, universitari e lavorativi della sua vita. Il suo essere sempre percepita come fuori luogo, il pagare la pronuncia o la poca confidenza con i codici del consumo culturale della classe media e del ceto colto.
Cavarsela da soli
«Sono cresciuta nella convinzione che se mi fossi impegnata abbastanza (frequentando l’università, stimolando il mio intelletto, lavorando più dei miei compagni) avrei sicuramente avuto successo. Un successo che ovviamente coincideva con il passaggio a un’altra classe sociale». Una tirannia del merito che ha due conseguenze immediate: un’automatica e inconscia svalutazione delle proprie origini e della propria classe, e quindi di sé stessi. Se le mie origini sono qualcosa da cui devo sempre e comunque affrancarmi, non vorrà forse dire che valgono poco, che valgono poco le persone che mi vogliono bene a cui voglio bene, e che quindi valgo poco anche io?
La seconda conseguenza è che trasforma ogni traiettoria esistenziale in un destino individuale, in cui successo e insuccesso dipendono soltanto da sé. Se le classi sociali non esistono, come dicono, allora «siamo nati tutti uguali, con lo stesso accesso al capitale materiale, culturale e sociale», ne consegue che se non abbiamo successo è solo colpa nostra. «Il tropo del riuscire a cavarsela da soli è esattamente questo – un tropo, una bugia – eppure la maggior parte delle persone ci crede».
Da qui la quantità di sofferenza psichica di cui siamo circondati. Il mondo culturale è doppiamente colpevole: per prima cosa perché sarebbe proprio il compito di chi ne fa parte dare voce a questa sofferenza; e ancora di più (è questo è il secondo punto) perché chi ne fa parte, o aspira a farne parte, ne soffre in prima persona.
Quanti compagni di studio abbiamo visto rinunciare alla carriera universitaria perché privi della base economica per conseguirla, rispetto ad esempio a chi non doveva pagare l’affitto perché la casa gli era stata regalata dai genitori; o dire no a uno stage sottopagato perché non avevano di che pagare le bollette, mancando di un reddito, magari qualche casa dei nonni data in affitto o messa su Airbnb; o amici che rimandano all’infinito la decisione di fare figli, in attesa di essere assunti; o colleghi che spendono un terzo dello stipendio in psicoterapia; o chi, nonostante i lavori “culturalmente” prestigiosi, è più esposto e più debole dei propri genitori impiegati; o la consapevolezza per cui, se manca una famiglia benestante alle spalle, non si potrà mai comprare casa? Ma questi sono argomenti di cui non si può parlare, non è elegante, né culturalmente riconosciuto. Quanti libri leggiamo e pubblichiamo che ne parlano apertamente? Pochi, dispersi, sminuiti: anche per questo è utilissima la ricognizione della letteratura working class che fa Alberto Prunetti in Non è un pranzo di gala (minimum fax).
La sinistra e la vergogna
Torniamo a Cruz. «Ridurre la tensione interna dovuta a stimoli esterni», come ansia sociale e di classe, preoccupazioni finanziarie, difficoltà ad arrivare a fine mese, è un altro modo in cui si manifesta il disagio: alcol, droghe, psicofarmaci e varie forme di ottundimento sono l’unico modo per sopportare una realtà insostenibile. Ma chi a sinistra in Italia pensa a tutto questo senza disprezzo giudicante?
«Solo per la classe media e per i ricchi il tempo libero fa parte della vita, sotto forma di vacanze e case estive o per i fine settimana, serate libere perché possono permettersi di pagare tate o babysitter, o semplicemente perché non devono lavorare, o svolgere diversi impieghi con orari lunghi». Non potendo andarsene fuori città, il fine settimana lo si passa a girare in centro: da qui le folle che dalle periferie si riversano tra le vie del centro, meglio tenute e piene di negozi di città trasformate in grandi centri commerciali.
La flânerie, allora, è un tentativo per distrarsi dalla brutalità del lavoro. I poveri, proprio perché non possiedono niente, sono vulnerabili al feticismo della merce: «Anche se siamo consapevoli che spendere gli ultimi duecento dollari per un flacone di profumo o un paio di scarpe stupende ci darà al massimo un solo giorno di euforia, a cui seguirà un’inevitabile sofferenza, il bisogno di fuggire dalla brutalità del mondo può divenire così preponderante che la scelta di indulgere, cioè di rifugiarsi in un fantasma, diventa irresistibile e non riusciamo a opporvi resistenza».
Nulla da difendere
«Mi hanno insegnato a vergognarmi delle mie origini, e di conseguenza, nel corso degli anni poco alla volta mi sono liberata, nella vita e nella scrittura, dei legami con il mio mondo. In altre parole, mi sono persa. Non sapevo più chi fossi, sapevo solo di non appartenere alla classe media. Allo stesso tempo, sapevo che non mi sarei più sentita a mio agio nel luogo da cui provenivo. Ero cambiata, ma che cosa ero diventata?».
Quando siamo immersi nella malinconia, a differenza del lutto, non è chiaro cosa o chi abbiamo perso. Il dolore non si fissa su qualcosa di esterno (la persona morta, ad esempio), ma resta atmosferico, fluido, incontrollabile. Portando in definitiva alla perdita di autostima, alla svalutazione, al credere nella propria stessa mostruosità.
Da qui anche la componente di autodistruzione che, lungi dall’essere condannata o stigmatizzata, va compresa e attraversata. Quelli che la destra (di nome o di fatto) chiama devianze, attentati al decoro (specie quello urbano), o anche la semplice pacchianeria condannata in nome dell’eleganza highbrow, sono forme che assumono una vera e propria pulsione di morte per chi dallo sguardo dell’altro riceve solo disprezzo o addirittura un certificato di non esistenza. Pulsione di morte perché quando non si ha nulla da difendere non si può che ricominciare da capo, cercare il nuovo. Anche a livello politico: la mobilità degli elettori registrati nelle elezioni degli ultimi anni, i passaggi di grossi blocchi di voti dai M5s alla Lega e ora a FdI, sono anche la risposta a questa autodistruttiva ricerca del nuovo.
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