In principio, in foto fu un papa. E un altro anche negli albori del cinema. In entrambi i casi però i contorni di quanto accadde sono sfuocati
Nella preistoria della fotografia all’inizio c’è un papa. E un altro figura agli albori del cinema. Ma in entrambi i casi i contorni di quanto accadde sono sfuocati. Esordi nebulosi, dunque, anche se tra il papato e le due nuove arti il rapporto è stato molto intenso, tra fortune rapidissime, imbarazzanti incidenti, interessi economici e speculazioni, in un susseguirsi di storie – spesso ricorrenti – che arrivano all’era dei cellulari.
Nato in una famiglia al servizio della monarchia francese ormai al tramonto, Nicéphore Niépce sembra avviato a una carriera ecclesiastica, ma nel 1792 si arruola nell’esercito rivoluzionario. La sua vera vocazione sono però la ricerca e gli esperimenti scientifici. Ingegnere, dal 1816 studia l’eliografia, un procedimento che gli consentirà di riprodurre immagini su supporti – come il «bitume di Giudea» – sensibili alla luce.
La prima raffigurazione fotografica in assoluto sembra essere stata nel 1822 quella del papa, il vecchio Pio VII, un monaco protagonista di vicende drammatiche che l’avevano più volte costretto a viaggi forzati in Francia: per l’incoronazione imperiale di Napoleone e poi come suo prigioniero per anni. Da un ritratto – molto probabilmente un’incisione – del pontefice, per la prima volta divenuto popolare oltre i confini dei suoi stati proprio per le sue sventure, Niépce ricava l’immagine su vetro di papa Chiaramonti, andata perduta.
Prime foto e primi scandali
Oltre un ventennio più tardi Gregorio XVI, un altro monaco, è in visita a Tivoli e qui il 2 ottobre 1845 viene fotografato, da solo e con il suo seguito, da un pioniere della nuova arte, il gesuita Vittorio della Rovere, che aveva puntato l’obiettivo anche sulla luna e avrebbe poi lasciato l’ordine. Ma non sono conservate nemmeno queste immagini, le prime di un pontefice ottenute dal vero con la dagherrotipia, una tecnica perfezionata da quella di Niépce e che sei anni prima era stata descritta da Giuseppe Gioacchino Belli nello Zibaldone.
Passano pochi mesi dalle fotografie tiburtine, e dopo la morte di papa Cappellari viene eletto il cinquantaquattrenne Giovanni Maria Mastai Ferretti, che prende il nome di Pio IX e regnerà per ben 32 anni: un record assoluto. Il giovane pontefice – accolto con entusiasmo dopo il soffocante quindicennio gregoriano – viene fotografato nei giardini del Quirinale il giorno stesso della sua incoronazione, il 21 giugno 1846.
Da allora le immagini papali e della Roma papale si moltiplicano velocemente. A indagarne le origini, con rigore storico e divertita passione, è il primo e più grande dei vaticanisti, lo scrittore Silvio Negro, nel libro Seconda Roma, quella dell’ultimo ventennio (1850-1870) del potere temporale pontificio.
Nella Roma dell’ultimo papa re entra in scena di nuovo un chierico, l’abruzzese Antonio D’Alessandri, il «primo fotografo professionista romano», che tuttavia «non aveva una vocazione ecclesiastica imperiosa» chiosa con lieve arguzia Negro.
Tornato da Parigi con macchine e tecniche nuove, apre uno studio in via del Babuino. «L’autorità ecclesiastica, doverosamente interpellata visto che si trattava di un prete, diede il suo assenso, con la condizione però che non vestisse l’abito mentre stava a travasare acidi e a servir clienti».
Il fotografo impianta così una ditta familiare che riscuote presto fortuna e ottiene l’esclusiva dei ritratti del papa e della sua corte, ritraendo – dopo il crollo del regno delle Due Sicilie – anche i Borboni esuli a Roma. Nonostante un editto del cardinale vicario minacciasse multe, confische e pene severe per contrastare «scene indecenti» o addirittura oscene realizzate con i nuovi procedimenti, nel 1862 scoppia uno scandalo che assume proporzioni europee. Pure i fratelli D’Alessandri vengono coinvolti, ma non hanno colpe.
Da loro infatti una coppia di fotografi spiantati (poi arrestati e processati) aveva acquistato vari ritratti ufficiali di personaggi curiali per realizzare dei fotomontaggi maliziosi. La bella e stravagante regina di Napoli senza trono vi era rappresentata in allegra compagnia di prelati e dello stesso pontefice: il viso di Maria Sofia era attaccato alle fotografie di una modella, «ritoccate con abilità da un artista» e di nuovo fotografate.
Da De Federicis a Paris Match
Dopo le vicissitudini e gli scontri militari che preludono alla presa di Roma nel 1870, documentata da don Antonio, questi entra però in urto con la curia e finisce per lasciare il sacerdozio, ma continua a esercitare a lungo, con abilità e successo notevoli, la professione.
A sostituirlo non è stavolta un ecclesiastico bensì un laico, Francesco De Federicis.
Di mestiere «libraro e cartolaro», in piazza della Minerva vendeva oggetti sacri e aveva in deposito fotografie di Roma e del papa. Le circostanze che lo portano sin dal 1878 a ottenere la carica di fotografo papale – a cui si aggiunse nel 1901 quella di «cinematografista pontificio» – sono, morto Pio IX, l’avvento del nuovo papa Leone XIII ma, soprattutto, la conoscenza di un fratello del pontefice, il teologo gesuita Giuseppe Pecci, poi cardinale.
Il commerciante ha la prontezza di offrirgli, già il giorno dopo l’elezione, un fotomontaggio dove aveva applicato le vesti papali a un recente ritratto di Gioacchino Pecci, e ne ha la proposta di fotografare il pontefice.
«Solo opposi che non essendo fotografo, né avendo studio, mi sarebbe convenuto provvedermi di macchine e di artisti; cosa che avrei fatto tostoché mi venisse data sicurezza della volontà del Santo Padre» ricorderà poi De Federicis, che per anni moltiplicherà insistenti richieste di fotografare – e più tardi di filmare – il papa, con la motivazione esplicita di dover mantenere la famiglia.
Nel ricordo disarmante di quell’episodio sono anticipate le vicende altalenanti di un personaggio che, quasi per caso, appare al centro di uno snodo che si rivelerà sempre più cruciale nella rappresentazione – e nella proiezione simbolica – del papato contemporaneo. Come scrive Gianluca della Maggiore nel suo recente Le vedute delle origini su Leone XIII (Utet), la storia di De Federicis «appare contraddistinta da una buona dose di approssimazione e imperizia verso una professione nuova», che nemmeno lo attraeva.
A differenza invece del suo soggetto, papa Pecci. Questi, quando ancora era vescovo a Perugia, nel 1867 aveva dedicato dei raffinati versi latini all’«ars photographica». E già nei primi anni del pontificato un’allegoria della nuova arte viene dipinta da Domenico Torti in un affresco nella Galleria dei Candelabri dei musei vaticani.
Quasi ad anticipare l’intreccio della fotografia nella storia della Santa sede, documentata con molte immagini nella raccolta Les photos secrètes du Vatican (Gründ-Plon) grazie al ricchissimo archivio di Paris Match, a sua volta al centro di due vicende tra loro opposte, ma entrambe emblematiche.
Se infatti l’avidità del medico pontificio Riccardo Galeazzi Lisi arriva nel 1958 a vendere al rotocalco francese le foto di Pio XII agonizzante, sei anni più tardi il settimanale noleggia un intero Caravelle – attrezzato per l’occasione a laboratorio fotografico – per ospitare buona parte della redazione inviata a seguire e documentare il viaggio, davvero storico, di Paolo VI in Terra Santa.
Filmare un papa
Con i papi non più italiani le immagini si moltiplicano a dismisura. Milioni sono infatti gli scatti realizzati da Arturo Mari con Giovanni Paolo II e da Francesco Sforza con i suoi successori.
Ma l’improvvisato e raccomandatissimo fotografo De Federicis aveva incrociato anche l’entrata nella storia del cinema di un pontefice, l’ormai vecchissimo Leone XIII. Un episodio oggetto di una discussione – come scriveva una sessantina d’anni fa Mario Verdone, il padre di Carlo – se questa primogenitura spettasse ai fratelli Lumière grazie al loro agente Vittorio Calcina o alla newyorkese American Mutoscope Company (nota poi come Biograph) e a William Dickson. Fu quest’ultimo il vero autore di almeno sette brevi riprese tra l’aprile e il luglio del 1898 nel Palazzo apostolico e nei giardini vaticani.
Nella vicenda un ruolo di primo piano venne svolto da alcuni vescovi statunitensi e il successo delle immagini fu davvero mondiale. Ma altrettanto accese si scatenarono le polemiche, soprattutto sull’uso commerciale dei filmati, sostenuti con grande efficacia dal sensazionalismo della yellow press di William Randolph Hearst, che nel 1941 avrebbe ispirato Orson Welles per il suo Citizen Kane. Ma i tempi erano cambiati, e l’anno dopo sarebbe stato lo stesso Pio XII in Pastor angelicus a interpretare sé stesso.
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