No, caro lettore o, preferibilmente, lettrice: anche se questo racconto prende le mosse da un paesino del sud arroccato sul mare, sappi che non voglio infliggerti l’ennesimo pianto rituale sui ritardi o sulle distorsioni nello sviluppo del nostro Mezzogiorno. Sono troppo meridionale – dunque scettico ed epicureo – per rifriggere e infliggerti una materia prima così irrimediabilmente scaduta.

Fissazioni

Piuttosto voglio parlarti di un piccolo trauma che, in quanto tale, è stato capace di aprirmi gli occhi. Sul finire della vacanza mi ero impuntato: dovevo acquistare un giornale cartaceo. Mi sembrava un gesto antimoderno, forte, ognuno ha le sue fissazioni. Perciò ciabattavo a vuoto da oltre mezz’ora: le edicole non esistono più, pizzerie e friggitorie quante ne vuoi, ma non voglio polemizzare. Il fatto è che l’asfalto continuava a dilatarsi, a screpolarsi, a scrocchiare sotto i miei sandali impronunciabili (Biedermeier, Alpenstock, Bayreuth, no ci siamo, ci siamo: Birkenstock).

Il fatto è che, nei paesini a picco sul mare, usa ancora tappezzare di avvisi funerari alcuni tabelloni. Indugio sempre volentieri davanti a questi bollettini dell’aldilà, molto più credibili dei nostri notiziari televisivi, rispetto ai quali il cinegiornale Luce conserva un piglio iconoclasta. Ma non voglio polemizzare, ripeto. Ognuno ha le sue manie, io centellino quegli annunci listati a lutto per arrivare al loro sapore autentico, concentrato nei soprannomi.

I soprannomi che, nei paesini, identificano il defunto, troppo poco caratterizzato dalle sue insipide generalità anagrafiche. Esemplifico per te, caro lettore o preferibilmente lettrice. Antonino Cuomo (capa ‘e lignamme). Giovanni Zaccheo (Tarzanetto), Giuditta Pastena (Giuditta ‘e Mastu Tore). Sono sfiziosità antropologiche che ti fanno assaporare retroterra e retrogusto della microstoria; le appartenenze, le filiazioni; gli stigma fisici che perseguitano una schiatta perfino quando i suoi appartenenti sono, appunto, schiattati.

Con tutta sincerità: io l’insolazione per delibarmi l’ultima edizione relativa ai morti-del-giorno l’ho rischiata volentieri, anche quest’ultimo agosto. Premesso che si tratta di gusti personali, chiaro. Io rispetto anche chi borbotta scongiuri e allunga il passo, davanti alla dipartita di Luigi Cafiero (coscia cacata). Io non sono come quegli spiriti inclusivi che tollerano tutte le opinioni purché compatibili con la loro. Io. Ma basta premesse, veniamo al sodo.

Microcosmo

Scorrevo le predilette affissioni senza far male ad alcuno, quando mi sono ritrovato con mezzo piede nell’abisso.

LA FAMIGLIA CATALDO PIANGE LA SCOMPARSA DELL’AMATA PAMMY

Nella bacheca funebre che assemblava in un unico collage le remote fattezze dei dipartiti, l’ovale fotografico di una Toy Spaniel, la dissonanza di quei suoi occhioni umidi. Pammy. La famiglia Cataldo: un ceppo nativo di solide radici, non eccentrici olandesi neo-acquirenti di un casale.

Ancora sotto shock ricordo di aver messo mano al telefonino. La famiglia Cataldo, mi ripetevo incredulo. Non i soliti nordeuropei post-moderni, prostrati in adorazione del loro cane come un egizio sotto Ramses II. Mi sentivo come il testimone frastornato di un cataclisma, avvertivo il dovere di fissarne l’immagine ancorché sfocata.

Quel tipo di cordoglio pubblico ufficializzava una di quelle fratture simboliche che preannunciano un più vasto sgretolamento nel microcosmo del paesino, nel suo più che millenario equilibrio fra vivi e morti, tra viventi umani e defunti umani. Tanto più ho fatto bene a immortalare l’accaduto: il giorno successivo il manifestino di Pammy è stato raschiato via come un’immagine sacrilega. I precursori Cataldo, evidentemente, si erano spinti troppo in là; nottetempo la comunità ha manifestato il proprio dissenso. Eppure temo sia stato aperto un varco nel costume; altri seguiranno l’esempio di quei battistrada e lo normalizzeranno. Pammy Cataldo verrà consegnata alla storia locale come un’antesignana.

«Basta? Tutto qua?». Lo sento che ruggisci, mia impaziente lettrice. Tu sei insaziabile, esigi il tuo pasto giornaliero di personaggi da sbranare. Calma, tigre!

Giuliana la narcisa

Te ne servo sùbito uno, senza smarginare fuori tema: Giuliana la narcisa e la sua cagnetta umanizzata. Vale a dire Ofelia piccolo cane, questo il nome completo con cui la bestiola verrà battezzata non appena la chiesa lo consentirà (presto credo, in un afflato francescano).

Da anni seguo quella creatura su Instagram, Giuliana dico. Non aspettarti sviluppi passionali però, tigre. Siamo solo conoscenti; lei, per me, incarna più che altro un sintomo, non ci si può invaghire di un sintomo, chi si innamora di un ematoma, per dire? Ma non perdiamo il focus, tigre. Nella vita Giuliana insegna. Fuori da scuola si sfianca in palestra, con risultati mirabili. Nella sua sterminata galleria di immagini, lei appare tonica quanto una ventenne. A volte, come per una distorsione allucinatoria, mi sembra quasi acerba.

Compulsiva con macchinari e schede, Giuliana lo è altrettanto rispetto ai viaggi, che pianifica in funzione della sua persona quale soggetto fotografico preminente. Anni di Instagram stanno lì, come annali, a documentare che Giuliana gira il mondo per trasformare qualunque coordinata geografica in uno sfondo per il suo corpo. Il corpo, fra l’altro, è il pretesto per i selfie, indispensabili allo scopo di tramandare il suo passaggio in questa vita (compito demandato, un tempo, alla prole).

Sotto questo aspetto, l’autosufficienza di Giuliana è esaustiva. Quella ragazza-donna si ritrae da sola. Piazza la fotocamera, temporizza lo scatto, trova all’istante la posizione ideale. La sua figura si raccoglie in un’eccezionale concentrazione muscolare; il sorriso bianchissimo mette in ombra lo sguardo mai del tutto a fuoco. «Il mondo esiste per finire in un bel libro», teorizzava la buonanima di Mallarmé. Punti di vista, relativizziamo. Giuliana potrebbe sostenere che il mondo esiste per approdare in un buon autoscatto del suo profilo Instagram.

Ma se Giuliana vive di like, resta altrettanto vero che lei campa per Ofelia piccolo cane. Dio come Giuliana è riuscita a umanizzarla, quella bestiola! La porta in braccio per non farla stancare. Quasi un’intera stanza è per la piccola, che ha un suo guardaroba di completini invernali e più traforati, nei mesi caldi. Al compleanno si fotografa con la cucciola davanti a una torta che non mangeranno né la padrona, a dieta, né la festeggiata, per ovvi motivi alimentari. Ho voluto mostrare la scena a un’amica dalla lingua tagliente.

«Questa vive da sola con un cane per non morire da sola come un cane». Lapidaria. In effetti, nelle foto di Giuliana non aleggiano mai un fidanzato o anche solo un amante. L’impressione è che Ofelia abbia soppiantato, come investimento affettivo, sia l’idea di un partner da coccolare che quella di un figlio da accudire. E bada, tigre, che potrei declinare lo stesso discorso per i gatti.

Calcio animale

L’altro giorno, guarda, erravo per il quartiere torturandomi intorno a cosa scrivere. D’improvviso compaiono loro, le pie donne. Sono ancora giovani, emettono strani versi mentre rasentano la cancellata di un capannone industriale deserto. «Otello? Romeo? Venite!». Recano in mano delle ciotole, sono lì lì per miagolare. Invocano il paio di gatti randagi che si degnano di incedere verso di loro in bilico sul muretto. Mostrano una condiscendenza felina, da animale superiore nei confronti delle adoratrici. E le due supplici li servono come, in altri tempi, avrebbero fatto con un figlio viziato o il più indolente dei mariti. Mariti infedeli perché – l’ho appurato nei giorni – i due micioni non disdegnano di farsi nutrire da un’altra abitante della zona. Una gattara brizzolata che cerca di arruffianarseli con l’adulazione, con dei servili massaggi sulla testa a cui le bestiole accondiscendono altezzose. Lo so che adesso vorresti insorgere, tigre.

«E voi uomini, allora? Eh? Che mi dici?».

Ma noi uomini abbiamo il calcio, tigre! Noialtri vogliamo goderci in pace la partita in televisione, da soli o con qualche nostro congenere. Il calcio non è male, senza pargoli fra i piedi. La verità? Il calcio non è poco, con i tempi che corrono.

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