Giorgio de Mitri è fondatore dell’agenzia di comunicazione Sartoria e da vent’anni consulente primario, per i rapporti tra stile e cultura, del ceo mondiale di Nike – Mark Parker – e conseguentemente dei quartieri centrali della supercompany a Beaverton, Oregon. L’intervista è parte di una serie di interviste condotte dal critico Carlo Antonelli contenute nello speciale DopoDomani dedicato alla moda, pubblicato in edicola e in digitale sabato 18 dicembre. Leggi qui tutte le interviste.
Carlo Antonelli: A che punto è lo stile maschile oggi? Dal punto di vista tecnico, metaforico, geografico.
Giorgio de Mitri: Se per menswear intendi la moda maschile direi che il mercato abbia trangugiato tutti gli stimoli che sono derivati dal cosiddetto streetwear e cercato di farli propri, con tutto quello che ne consegue.
Tecnicamente i grandi marchi si sono adagiati su tutto ciò che garantisce margini di profitto crescenti, vedere una scarpa da ginnastica in vendita per 800 euro fa pensare.
Metaforicamente ricorda Mary Shelley e i pallidi studenti che cercano di resuscitare stilemi ormai passati: «Io vidi – con gli occhi chiusi ma con una acuta visione mentale – io vidi il pallido studente di arti proibite inginocchiato di fronte alla cosa che aveva messo insieme. Vidi la forma orribile di un uomo disteso, e poi grazie all’opera di qualche potente strumento, lo vidi dar segni di vita e agitarsi con un penoso moto semi-vitale».
Dopo la morte di Virgil Abloh vedremo a chi affideranno il ruolo di moderno Prometeo.
Geograficamente i luoghi rimangono gli stessi, Milano, Parigi, Londra, dove Kim Jones è tornato a sfilare con Dior dopo decenni, Bejing e Tokyo. Ivi sono basati i big players, da Lvmh a Ngg e lì si gioca la partita. New York e Los Angeles, come Berlino e Amsterdam, per non parlare del Medio Oriente e di Mosca, li vedo periferici. Discorso diverso per quello che riguarda i grandi marchi sportivi, difficile collocare geograficamente una Nike, non certo in Oregon.
Antonelli: Chi sono le menti (e le mani, e i cuori) che hanno intuito, venti anni o dieci anni fa, cosa sarebbe stato lo stile del momento?
De Mitri: Partendo da Caroline Baker e Harri Peccinotti, Malcom McLaren e Vivienne Westwood, passando per Terry e Tricia Jones, Nick Knight, Simon Foxton, Lee McQueen per arrivare ai talenti di oggi, da Tyrone Lebon a Jun Takahashi, i nomi e le storie sarebbero tante.
A Pechino apre nel mese di dicembre 2021 una mostra dedicata ai quarant’anni dello streetwear, Style in Revolt, co-curata da Fraser Cooke e Paul Mittleman con l’aiuto del sottoscritto. Senza di loro, unitamente a Luca Benini, Michael Kopelman, Hiroshi Fujiwara, difficilmente assisteremmo a quei fenomeni di costume che sono diventati i vari Stussy, Supreme e compagnia bella. Per non parlare degli epigoni come Off White, County of Milan, Alyx.
Antonelli: La pandemia e i cambiamenti demografici hanno definitivamente accelerato l’erosione dello stile classico? È finalmente finito il Novecento?
De Mitri: La pandemia ha accelerato la bramosia di guadagno di grandi e piccini. Il direct to consumer e il commercio digitale stanno cancellando gli ambasciatori che erano i piccoli dettaglianti, primi aedi della storia della moda, maschile o femminile che sia.
Persone come Sarah Andelman di Colette sono state quintessenziali alla creazione della mitologia di molti marchi nel saperli reinventare esponendoli e raccontandoli in modo nuovo. Con lei Adrian Joffe e Dickon Bowden di Dover Street Market, per non parlare di una forerunner come Carla Sozzani di 10 Corso Como.
Oggi i marchi si affidano agli influencer, come se una storia su Instagram o una celia su TikTok sapessero restituire l’immenso lavoro che si nasconde dietro ogni capo fatto bene. Il Ventunesimo secolo è finito, con buona pace dei nostalgici. Con il funerale di Virgil credo si sia celebrata la morte cerebrale del sistema.
Rimaniamo in attesa di capire a chi spetterà resuscitare il mostro. Nel frattempo speriamo di continuare ad assistere al proliferare di piccoli produttori che, con l’aiuto di maestri artigiani, sappiano continuare quel lavoro che vede la bellezza, l’utilità e la creatività come valori fondanti, a dispetto di quelli meramente economici.
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