Gli atleti dicono spesso cose che risultano anche migliori delle loro imprese. Non succede a tutti: a Cristiano Ronaldo non è mai successo, ma a molti altri sì. Per quella assurda lotteria delle interviste – che sono un assedio per chiunque – nella fretta di rispondere per andarsene: si va al cuore delle cose, consegnandosi all’essenziale.

E così Sofia Goggia, prima ancora di compiere l’impresa di vincere il SuperG di Beaver Creek dieci mesi dopo l’infortunio, ha detto una frase semplice, per raccontarsi, ma come succede per le canzoni che più sono stupide e più sono vere, diceva Fanny Ardant ne La signora della porta accanto, alla fine ci ha consegnato un programma esistenziale. Sofia ha detto: «Ho odiato il comunicato della Fisi, quando ero in ospedale. Scrissero che sarei tornata più forte. Non sapevo se fosse una prospettiva realistica».

La Fisi non aveva detto niente di male, anzi, si era solo arrischiata in una previsione che era figlia dell’ottimismo inculcato dai film hollywoodiani, in una battuta: c’ha rovinati Frank Capra. Perché tendiamo a pensare che quando ci suicideremo arriverà un angelo di seconda classe a farci desistere e che poi la nostra comunità ci aiuterà. Succede anche questo, ma con meno frequenza e dimestichezza dei film. La vita è più simile a La lotteria di Shirley Jackson. E succede anche che il sofferente voglia solo un abbraccio o anche silenzio, o un incoraggiamento senza previsioni come nel caso di Sofia.

Poi lei ha scavalcato il cancello del dolore e ha ripreso a saltare e a scendere velocissima con gli sci, come l’altro giorno in Colorado, ma prima è stata sotto shock per venti giorni e non voleva che nessuno comandasse nel suo dolore né facesse previsioni. Anni fa, Vasco Rossi cantò «Oggi non ho tempo, | oggi voglio stare spento» in Vivere poi ripreso in un’altra canzone, Lettera da lontano, da Enzo Jannacci, che cantava: «Lettera a Vasco Rossi, mi piace sentirgli dire che oggi è spento».

Ecco, Sofia era spenta quel giorno, e non voleva che nessuno le leggesse il futuro nelle lastre della sua tibia e del suo malleolo fatti a pezzi e poi ricostruiti. E adesso, dopo aver stracciato le sciatrici rivali, si è tolta gli sci e si è messa a ballare, ma prima, prima, nel tempo del dolore ha avuto bisogno di tante sfide con sé stessa: «Quando mi alleno non porto mai le chiavi di casa: pesano. Non avendole, scavalco il cancello e salto da un metro e mezzo. Ma con la piastra non me la sentivo: mi calavo strisciando e saltavo da mezzo metro. Sono andata a correre 23 giorni dopo la rimozione, ho guardato giù, ho saltato senza pensarci». Aveva bisogno di quella solitudine e di quei tentativi che non potevano rientrare nell’assolutezza di un comunicato che annunciava il ritorno come una uscita al cinema. Non si torna mai quelli che eravamo, e ogni giorno perdiamo qualcosa. Perché il tempo è un animale difficile da cavalcare quando si cade. Proprio quest’anno due film c’hanno lavorato ossessivamente: in piccolo Parthenope di Paolo Sorrentino e in grande Megalopolis di Francis Ford Coppola.

Il tempo di un atleta non è mai intero, ma sempre diviso e l’atleta arriva a quella divisione nelle ore di allenamento quando non è visto, ammirato, amato o criticato. Quello di un atleta infortunato diventa il tempo di un dolore che cancella metodo e divisione e che va riscritto, reinventato, riscoperto. Un nuovo blocco da sezionare. Per questo c’è una Sofia prima e una Sofia dopo, che è una Sofia doppia che deve reinventare la discesa, riamare gli sci e mettere in conto che potrà ricadere e anche farsi male ancora. Che deve ricucirsi alle piste e prima ancora al suo corpo in pista. Perché la vita è tentativo. In questa doppiezza: quella debole che piange se ripensa all’infortunio, e quella fortissima che va e disegna la discesa a una velocità assurda, c’è il recupero del tempo e della vita sportiva e no.

Ora lo sta attraversando Edoardo Bove e nessuno, tranne i medici, deve dirgli come e quando tornerà – ovviamente l’han fatto tutti, dimenticando che nel suo dolore comanda lui. Adesso Sofia balla a Beaver Creek perché ha vinto la gara e la sfida col suo fisico logorato, e il fatto che ci abbia pensato tanto su è dato dal calcolo che ha fatto, ancora una volta scindendosi: «Se penso a quanto poco ho sciato nella mia vita, mi ritengo una ragazza del 2002. Nella Coppa del Mondo ho 180 gare, con una media di un podio ogni tre o quattro. E in discesa le cifre sono migliori. Sono una sciatrice, ma non sono una che ha sciato tanto».

Pensandosi ragazza si è fatta mettere placche e viti e poi si è ri-sottoposta a un’altra operazione per toglierle, accettando il tempo lento delle malattie e degli infortuni. Un tempo diverso. Ingannato con un trucco del pensiero. Sofia l’ha interrotto proprio come fa Adam Driver nel film di Coppola, c’ha scavato dentro, e poi l’ha riavviato. 

© Riproduzione riservata