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Cercare di rinchiudere Stephen King nella definizione di “romanziere americano” è un errore. Così come sarebbe un errore cercare di limitare i suoi libri alla storia che raccontano e attribuirli alla fantasia di un solo autore.
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L’esistenza del Maine di King è la garanzia che gli incubi abbiano un posto nel quale scatenarsi, e siamo noi a decidere quando chiudere il libro o spegnere il televisore.
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King ha saputo farsi vettore e centro focale di una vastissima quantità di fonti di ispirazione, suggestioni, sensazioni ed emozioni che difficilmente avrebbero trovato una collocazione se lui non fosse esistito o non avesse scritto.
Se pensiamo alla città immaginaria di Derry, Maine, nord est degli Stati Uniti, sono due le cose che ci vengono in mente: l’acqua fangosa e malsana delle fognature più famose del mondo, e l’adolescenza vissuta spensieratamente sull’orlo di una catastrofe. Grazie a Stephen King. King, come riporta George Beahm nella mastodontica opera The Stephen King Companion – pubblicata in tre edizioni aggiornate dal 1989 al 2015 e ora, nella sua versione finale, tradotta in italiano col titolo Il grande libro di Stephen King (da Anna Pastore, Mondadori Electa) – ha imparato l’arte dell’orrore, dello spavento e del raccapriccio dai classici del terrore a fumetti letti ad alta voce da sua madre quando era bambino.
E in quasi cinquant’anni di carriera ha plasmato un mondo atrocemente reale attorno a un assunto immaginario: quello che potesse esistere un luogo geografico contemporaneamente confortevole e terrificante. Il luogo del cuore della nostra infanzia popolato di mostri e infestato dagli incubi.
Esistono un paio di generazioni di lettori per i quali la spensieratezza dell’estate è associata a un gruppo di amici, la provincia sonnolenta e un mostro che vive rintanato nelle fogne. Un paradosso su due livelli: il primo è quello della narrativa e del consumo sfrenato che il pubblico ha fatto dei suoi libri e rappresenta un porto confortevole al quale tornare ogni volta che se ne sente la necessità; il secondo è quello della narrazione, che ha dato alla luce un universo perfettamente funzionante, vitale e in evoluzione, talmente verosimile da confondersi con la realtà, ma a tratti terrificante come il peggiore dei brutti sogni.
Il reale che non esiste
Derry non esiste, e questo è un dato di fatto. Ma il Maine sì, e, in linea di massima, non è come King lo ha sempre dipinto. L’universo di Carrie, It, Cujo e via dicendo è complesso, stratificato, ricco di un intrico sociale che lo trasforma in un ecosistema tipico e che restituisce nella sua completezza la stessa stratificazione dell’immaginario sconfinato di uno degli scrittori più prolifici – certamente il più geniale – d’America.
Allo stesso modo, i protagonisti dei romanzi del re del terrore contengono tutte le moltitudini della quali è capace chi li ha messi al mondo: Billy Summers, per fare un esempio recentissimo, personaggio principale del nuovo romanzo omonimo (Sperling&Kupfer, traduzione di Luca Briasco) è un sicario spietato, indurito dalla guerra e incattivito dal tempo, appassionato di letteratura francese. Un equilibrio che sa stare maestosamente in piedi solo grazie all’abilità dell’autore e alla perizia assoluta con la quale dà alla vicenda un contorno credibile.
Nel saggio del 1981 Danse Macabre, King percorre i sentieri della sua ispirazione elencando e analizzando tutti i prodotti orrorifici che la alimentano o che l’hanno alimentata: libri, film, fumetti, programmi radio. Così, assieme a fornire una mappa di quelli che sono i punti cardine della sua produzione letteraria, contribuisce a catalogare l’orrore restandone al di fuori.
Ogni opera è legata a un luogo o a un momento della sua vita, e non è un caso. Così come non è un caso che ormai alcune delle immagini più famose e diffuse dell’universo horror derivino dai suoi libri e rimandino a una collocazione geografica assolutamente precisa e riconoscibile.
«Gli incubi hanno sempre un fondamento nel reale e non potrebbero esistere senza il contorno di verità che li ha scatenati», diceva in un’intervista il romanziere Dan Simmons, autore tra gli altri di capolavori come L’estate della paura e Hyperion. Per King, quegli incubi sono la miccia dei ricordi.
Forse dipende anche dalla fruizione che si fa di certi generi letterari: come lui leggeva i romanzi horror con il benestare di sua madre, ma di nascosto dalle zie e dal resto della società americana degli anni Cinquanta, così molti di noi sono cresciuti leggendo i classici del re del terrore con la testa infilata sotto le lenzuola, dentro un libro di testo o chiusi in bagno per non essere scoperti.
Revival dell’horror
La componente sociale e pseudo-educativa che ha a lungo tenuto l’orrore ai margini – quella che in Italia bollava Dylan Dog come perverso e scatenava interrogazioni parlamentari sui fumetti, per intenderci; e non a caso il detective del terrore aveva la libreria colma di libri kinghiani – ha rappresentato la stessa valvola di ribellione che ha contribuito a trasformare determinati prodotti letterari in veri e propri classici immancabili.
Stiamo vivendo un revival dell’horror: i ragazzini sono diventati adulti e possono leggere in libertà. E così, il Maine di King si è popolato di milioni di nuovi abitanti, diventando il piccolo stato più affollato del mondo.
Percorrendo la strada che da Boston si addentra nel profondo nord diretti a Bangor, alla ricerca della famosa casa con la cancellata a ragnatela di ferro battuto sormontata da due pipistrelli, si attraversa una terra selvaggia: foreste dense e apparentemente incontaminate, ruscelli irruenti, ponti su orridi profondi e il lento scorrere del fiume Penobscot che si stringe da un’insenatura simile a una ferita per prendere la direzione del Canada.
È un paesaggio irreale, inquietante e familiare. Ogni anno migliaia di cittadini si riversano da quelle parti per vedere cambiare il colore delle foglie e nel giro di una settimana scompaiono, lasciando i locali in balia degli inverni rigidi, violenti e desolati della costa del nord est.
Gli stessi inverni che conosce bene chi ha l’abitudine di tornare a King, che nel frattempo se ne va a svernare in Florida, ogni volta che trova occasione.
«Perché ci piace avere paura?», è una delle domande fondamentali che tornano ciclicamente nella documentazione di Beahm e che lo stesso King si è posto in diverse occasioni. La sua risposta standard, negli anni perfezionata, aggiustata e approfondita, chiama sostanzialmente in causa un misto di adrenalina, curiosità e nostalgia che ci guida verso gli oggetti del nostro terrore come una luce accecante guida una falena, conscia del rischio che potrebbe bruciarsi.
Se per quanto riguarda l’adrenalina e la curiosità resta poco da aggiungere, la nostalgia rappresenta forse proprio l’elemento di novità che ha trasformato King in un oggetto di culto. Facendo leva su quello che conosceva, che popolava la sua malinconia e che lo teneva sveglio di notte da ragazzo, King ha saputo restituire ai suoi lettori lo stesso agio e la stessa sensazione confortevole che provano i turisti bostoniani quando esplorano le foreste del Maine per osservale il foliage, pur correndo il rischio di perdersi.
Una paura piacevole
D’altra parte, il fatto di connotare geograficamente e temporalmente l’esercizio della paura è anche l’espediente che la rende sopportabile, per non dire piacevole. Se da ragazzi andiamo a esplorare una casa abbandonata che riteniamo infestata, è perché sappiamo che il male che la popola non può uscire dalle sue mura.
Sappiamo che noi possiamo lasciarcela alle spalle e decidere autonomamente quando visitarla. È un processo simile a quello che ci fa tornare con malinconia alla nostra infanzia anche se è stata miserabile.
Un altro topos kinghiano: le scuole medie popolate da bulli violenti, professori sadici e spettri sanguinari, ma che comunque rappresentano per il protagonista un vettore di emancipazione così forte da guardare al passato con tenera nostalgia. L’esistenza del Maine di King è la garanzia che gli incubi abbiano un posto nel quale scatenarsi, e siamo noi a decidere quando chiudere il libro o spegnere il televisore.
E l’universo del re non è limitato alla sua produzione o alle sue fonti di ispirazione, ma genera un arcipelago di sue personali passioni che chi lo conosce sa prendere come una vera e propria garanzia di qualità.
Oltre il già citato Simmons, sono tanti gli autori e le autrici che negli anni hanno guadagnato la cittadinanza onoraria dell’immaginario Maine: da Charles McLean, che nel 1982 ha pubblicato The Watcher per poi sfumare nel quasi anonimato, a Charles Graeder, autore nel 2018 di The Good Nurse, un saggio più terrificante di qualsiasi storia di fantasia si possa inventare; e poi Stephen Graham Jones (The Only Good Indian e Albero di carne), Alma Katsu (The Hunger), Tananarive Due (My Soul to Keep) - autrice tra l’altro assieme a Jordan Peele della sceneggiatura di Get Out!, un classico contemporaneo - e di recente il sorprendentemente angoscioso La casa in fondo a Needles Street (Sperling&Kupfer, traduzione di Christian Pastore), di Catriona Ward.
Insomma, cercare di rinchiudere Stephen King nella definizione di “romanziere americano” è un errore. Così come sarebbe un errore cercare di limitare i suoi libri alla storia che raccontano e attribuirli alla fantasia di un solo autore.
King ha saputo farsi vettore e centro focale di una vastissima quantità di fonti di ispirazione, suggestioni, sensazioni ed emozioni che difficilmente avrebbero trovato una collocazione se lui non fosse esistito o non avesse scritto. King è uno scrittore del Maine, e il Maine è vasto quanto l’universo.
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