- A differenza di Capitan America, che in Civil War molla tutto per andare a fare il pallbearer al funerale della sua madre e sposa (mancata) Peggy, io mi sento fuori posto ai funerali cui vado non per questioni di sangue.
- È paradossale, giacché sono lì proprio perché qualcosa di più vero e di più importante della genetica mi ci ha portato. Mi piacerebbe offrire la mia spalla, guadagnarmi un ruolo per via di servizio, di fatica.
- Sono dunque probabilmente preda di banali ma atavici stereotipi sul significato della parentela, sulla condotta del lutto, che persino la famiglia reale inglese aveva già un po’ dissipato nell’età georgiana.
Il più longevo sovrano maschio d’Inghilterra di tutti i tempi, Giorgio III, regnò per sessanta dei suoi ottantadue anni di vita, cioè per oltre metà dell’epoca che poi, in onore suo, dei suoi omonimi zii e del figlio che gli succedette, si chiamò georgiana. Ci ricorda di lui il musical Hamilton, in cui un clamoroso Jonathan Groff (doppiatore sia di Kristoff che della sua renna in Frozen) gli dà voce negli interludi di brit pop che lo vedono, matto e lezioso, opporsi istericamente alla fantasmagoria hip hop, soul e r&b sui cui beat si consuma la rivoluzione americana.
Qualunque liceale di qua dall’Atlantico sa dunque che re Giorgio fu sconfitto nel corso di quella rivoluzione, e dimentica forse che vinse invece la guerra dei sette anni e, soprattutto, che sconfisse Napoleone. Ma più certamente dimentica quanto sfortunata fu la sua genia, nell’èra in cui la paranoia della purezza faceva debole il sangue delle schiatte nobili d’Europa.
Nella sala da pranzo di stato del palazzo reale a Londra c’è un grandioso, tetro quadro di George Knapton che ritrae tutta quella famiglia, generata dal prolifico matrimonio del principe Federico di Galles con Augusta di Gotha. Sul lato opposto di quello occupato dal futuro re Giorgio si affastellano fratelli e sorelle destinati a vite assai brevi: Carolina Matilda ad esempio, una pupa in fasce che sarebbe morta regina di Danimarca a ventitré anni, o la bella Elisabetta, col suo liuto, che a diciott’anni avrebbe contratto una fatale infezione.
Tra due cani giocherelloni c’è anche un principino in gonna vermiglia, come ci informa la didascalia dorata: William, ancora troppo piccolo per le brache sfoggiate dal quasi omonimo fratello, William Harry. Un bel vestito simile al suo, ma rosa, lo sfoggia Louisa, sull’estrema sinistra: una principessa che non trovò consorte, si ammalò spesso e infine morì, a diciannove anni, senz’aver mai lasciato Londra. Quella ragazza cagionevole m’intriga perché fu in occasione delle sue precoci esequie che, per la prima volta, il cerimoniale ammise anche le donne nel ruolo di trasportare il feretro dentro e fuori dalla cattedrale – cioè a fare quella che, tradizionalmente, era una cosa da maschi.
La spalla dell’eroe
Prima di sapere della sfortunata Louisa ho a lungo creduto che la bara in spalla, ai funerali, potessero ancora portarla esclusivamente gli uomini: che alle donne si chiedesse solo di piangere. Del resto certe letture d’antropologia mi informavano, all’università, circa l’esistenza di piangitrici professionali, arruolate per esprimere sonoramente il dolore di una stirpe: le prefiche menzionate da Omero, le atitadoras sarde di cui avevo sentito parlare prima di trovarle nella poesia di Antonella Anedda. Sempre donne.
Mi pareva che i ruoli di genere, al cospetto del lutto pubblico, potessero essere banalmente duali, come sempre quando si cede mentalmente agli stereotipi: che dalle femmine ci si aspettassero grida e lacrime, e dai maschi l’ordinato sostegno di un letto di spalle mobili, pronte a sobbarcarsi del peso fisico invece che di quello emotivo.
Il funerale di Louisa d’Inghilterra, già nel 1768, smentiva questo mio pregiudizio, a ben vedere legato a quello per cui il fratellino di Louisa medesima, nel quadro di Knapton, mi pareva una bimba – ma anche prodotto, direi, di un certo immaginario americano.
Se ci penso infatti, mi pare che in tutti i film hollywoodiani in cui si celebri un funerale la bara sia issata, a un certo punto, da due file di maschi solenni, vestiti ovviamente di nero e capaci di trasportarla come militari, come lavoratori di fatica, in spalla. Sempre uomini, evidentemente alti uguali e, immagino, addestrati a camminare all’unisono, distribuendo con dignitosa accortezza il peso del funereo fardello. A volte sembrano professionisti, come le prefiche, a volte no.
Nel mezzo del suo terzo film, sottotitolato Civil War, Capitan America è interrotto nella sua testarda e un po’ ottusa missione dalla notizia che Peggy è venuta a mancare. Peggy è, per lui, una figura anomala: l’ha amata negli anni Quaranta, poi è rimasto ibernato per decenni mentre lei invecchiava e diventava per lui, ridestatosi ai giorni nostri per combattere il male, una figura materna, una mentore. Madre e sposa – in entrambi i ruoli mancata – Peggy estrae l’eroe dal suo conflitto con Iron Man e gli altri (da cui il titolo) per convocarlo al suo funerale: il ragazzo deve volare a Londra, alla basilica di San Luca, per portare in spalla, assieme ad altri commilitoni, la sua bara. Si sente sempre fuori posto Capitan America, ma non in quella scena. È la scena in cui capisce di dover dare ragione alle sue ostinazioni, quella in cui si decide il futuro degli Avengers per il resto, a ben vedere, della saga.
Se il sangue langue
Mi domando se si sentissero fuori posto, al funerale di Louisa d’Inghilterra, gli altri protagonisti di quel quadro di Knapton. Il patriarca Federico, morto persino prima che il quadro fosse dipinto, era famosamente inviso ai propri genitori, che conobbe poco, e diversi membri della sua famiglia crebbero separati gli uni dagli altri, legati solo dal debole sangue che inflisse a Louisa stessa e altri parenti prossimi le loro congenite malattie.
D’altronde il sangue, così insufficiente a tenere insieme chicchessia, è particolarmente efficace nella gestione dei ruoli in certe situazioni quali, appunto, i funerali. È sempre una questione di patriarcato, di ruoli stereotipi. Io ai funerali, quando non ci vado per questioni di sangue, mi sento in effetti spesso fuori posto. È paradossale, giacché sono lì proprio perché qualcosa di più vero e di più importante della genetica mi ci ha portato, ma al cospetto di parenti a me ignoti e altre figure d’ordinanza non so bene che fare, come comportarmi. Mi rifugerei dunque volentieri nelle sessuate fantasie binarie di cui sopra: invece di piangere, competendo magari con la legittimità manifesta di dolori d’altro genere, vorrei offrire la mia spalla e aggiungermi al gruppo che si sobbarca del peso della bara; esibire così, in contegnoso servigio, la mia partecipazione di ferito a morte. Invidio insomma Capitan America, che non può né deve spiegare a nessuno perché guida la piccola falange che trasporta Peggy.
Palleggiare il lutto
Coloro che portano in spalla la bara (o anche a braccio, scopro su internet; talvolta persino manovrando un carrello) si chiamano, in inglese, pallbearer. L’origine della parola credo sia la stessa che in italiano produce il termine “palio”: si riferisce al manto, al pallium che usava ricoprire il feretro, evolutosi poi in un più piccolo drappo che prese il nome di palla.
Stiracchiando l’etimologia, i quattro o sei ragazzi (o ragazze, almeno dal settecentesco funerale di Louisa) portano dunque, insieme, un mantello di supereroi; una palla, come una squadra di calcetto. La levità di quest’immagine mi conquista, e non è poi così estranea al ruolo del pallbearer.
Qualche anno fa hanno fatto il giro del mondo i video di un gruppo di pallbearer ghanesi, i Nana Otafrija, che svolgono l’austera funzione addirittura danzando, con gioiose evoluzioni coreografiche poi imitate da infermieri indiani e poliziotti peruviani per attirare l’attenzione del pubblico, al picco dell’epidemia di Covid, sull’importanza del distanziamento sociale. Come i loro epigoni, anche i ballerini africani lavorano in squadra e in divisa, come calciatori e supereroi. Come maschili prefiche che, invece di piangere, ridessero accompagnando chi resta al commiato di chi muore, offrono il loro servizio ai cari altrui.
Chissà se la fantasia di portare la palla, di mettere in spalla il mantello ai funerali di chi ho amato, mi viene dall’imperativo un po’ patriarcale di poter sostituire all’evidenza fasulla del sangue solo quella incontrovertibile di un lavoro, di uno sforzo: non me ma il mio corpo, capace di resistere a un peso concreto magari dirigendo, come Capitan America, altri corpi all’unisono.
Persino l’antica aristocrazia imperiale inglese è più avanti dei miei istinti, in questa fantasia macabra per cui, se langue il sangue, ci si può fare fratelli o figli svolgendo un servizio di fisica fatica – per cui il dolore, i maschi, se lo portano in spalla. Devo forse imparare a palleggiarlo invece, a danzarlo. O più semplicemente a piangere senza temere che mi scambino, come William, per una principessa.
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