Mi ha molto interessato il breve saggio di Gianrico Carofiglio uscito da Feltrinelli col titolo Della gentilezza e del coraggio. Breviario di politica e altre cose. Più che “interessato”, il participio giusto sarebbe “irritato” ma, sapendo che Carofiglio è esperto di arti marziali, non mi sbilancerò in avanti rischiando di perdere l’equilibrio.

Dunque comincerò da ciò che, nel saggio, trovo condivisibile: innanzitutto l’idea di ricondurre lo sguaiato dibattito politico in un alveo di discussione civile, ponendo delle regole minime di ascolto e di risposta, a partire dalle ormai classiche ricerche di Chaïm Perelman sulle tecniche dell’argomentazione, e sulle fallacie persuasive così diffuse in pubblicità e in retorica. E poi quel che dice sulla necessità di “silenziare l’ego” quando si parla del bene comune, di non rispondere a semplificazioni grossolane con altre semplificazioni o insinuazioni nella sfera del privato, cercando la rissa; e ancora la polemica contro quella che Italo Calvino, in un pezzetto famoso, definì l’antilingua. Come non essere d’accordo, quando si cerca di diffondere un po’ di galateo istituzionale e civico, offrendo un pronto soccorso anti-stupidità e anti-rozzezza ?

I primi dubbi mi nascono allargando lo sguardo all’orizzonte culturale di riferimento: tutti nomi eccellenti, per carità, da Bobbio e Eco in Italia, poi la scuola anglosassone dell’empirismo logico e quella psicologica californiana di Palo Alto, da Watzlawick al Bateson della ecologia della mente.

Nomi eccellenti, ma tutti interpretati nel modo più ottimistico e irenico possibile, come se i conflitti fossero soprattutto un problema di linguaggio e di paradossi logici, di capirsi o non capirsi, di chi convince chi, e come se la ragione o il torto potessero decidersi con le armi della cultura invece che del Potere. (Quando Alice, nel suo paese delle meraviglie, dice ad Humpty Dumpty “bisogna vedere se lei può dare alle parole questo significato”, lui risponde “bisogna semplicemente vedere chi comanda”).

Il conflitto inevitabile

Naturalmente Carofiglio ammette che ci siano conflitti “inevitabili e ingovernabili”, ma auspica che senza violenza si possano “trasformare in energia positiva” e “rendere più brevi e meno dannosi possibile”; così come riconosce le motivazioni delle fasce sociali più danneggiate quando si ribellano, sia pure “con modalità irrazionali e sbagliate”.

Sarà che sono cresciuto negli anni Sessanta in un ambiente dominato da Freud e Marx ma, se qualcuno mi dice che bisogna silenziare l’Ego, subito mi viene da ribattere “sì, ma l’Es, cioè l’inconscio?”

Se ho voglia di annullarmi rifiutando il cibo, non è coi ragionamenti che mi passa; è vero che la psicanalisi è terapia della parola, ma chiunque sia stato un paziente sa che il transfert è sostanzialmente una azione. E, allo stesso modo, se sono un contadino che gode a defecare nell’appartamento dello Zar, non mi si ferma dicendomi “ragioniamo”.

Odio e coscienza

L’odio e il rancore (sia personali che nella forma dell’odio di classe) sono una cosa seria, non è lecito avvilirli nella dimensione di uno spettro agitato dai cattivi politici.

Non sono soltanto errore e negatività, ma anche presa di coscienza e sviluppo di reciproca simpatia. Già Pasolini negli anni Cinquanta notava che il discorso di Antonio nel Giulio Cesare cinematografico (cioè l’esempio più illustre di manipolazione verbale delle folle) veniva applaudito nei pidocchietti di periferia; non solo perché a recitarlo era Marlon Brando, ma perché i ragazzi borgatari riconoscevano in lui le caratteristiche del “dritto”, e la dritteria era per quei giovani sottoproletari l’unica risorsa.

Per il galateo dei dibattiti, certo, bisogna evitare le categorie semplificanti: ma nell’inconscio personale valgono proprio quelle (seno buono/ seno cattivo), e anche nel preconscio sociale (amico/nemico, servo/padrone).

La Storia non è fatta di arringhe in tribunale e talk televisivi; un liberalismo democratico cosciente di sé non può esimersi dal sentire il peso di ciò che non si può risolvere con le regole della democrazia, direi che ha l’obbligo di misurare periodicamente la propria impotenza.

La lucida disperazione non è solo rinuncia, è un crogiolo per i salti d’epoca e le mutazioni impreviste. 

Non poterne più 

Ho letto da poco Chav. Solidarietà coatta (Edizioni Alegre) di D. Hunter. L’autore è un lumpen-proletario di Nottingham, ladro spacciatore e prostituto, riscattato attraverso la lettura e lo studio dalla condizione di senzatetto e poi di detenuto.

Hunter parla della violenza come autodifesa, come unico sbocco del “non poterne più”. “Attorno ai traumi”, scrive, “viene alzato un muro”; i militanti di sinistra che vogliono aiutarlo prescindono dal suo trauma perché li mette a disagio.

“Ho trovato difficile far parte di movimenti sociali in cui i miei compagni avevano l’aspetto, si muovevano e parlavano come i miei giudici, i miei assistenti sociali e le vittime dei miei furti”.

La conseguenza che ne trae è che “debba essere l’oppresso a decidere la propria forma di resistenza”. Conclusione estremistica, a rischio di fiancheggiare ribellioni sanfediste, riots funzionali alla destra autoritaria; ma lì sta il nocciolo della tragedia, in questa impossibilità di essere l’altro, quando l’intimo sentire legato all’esperienza si scontra con la Legge ragionevole e tra le due forze non c’è spazio di conciliazione.

La dignità dela tragedia

Quello che in fondo rimprovero al libro di Carofiglio è la sua elegante postura antitragica.

Tra due forze non conciliate si può trovare una sintesi, nei tempi lunghi, mediante il lavoro e l’educazione. Con generosità Carofiglio i tempi li vuole affrettare (un ‘breviario’) e applica la propria analisi a pratiche che hanno statuti diversi: il tweet sui social, il comizio politico, la scrittura giuridica e quella burocratica, il giornalismo, la letteratura.

Già in un ‘breviario’ precedente, nel 2015 (Con parole precise. Breviario di scrittura civile, Laterza editori), estendeva la necessità di un “uso responsabile delle parole” anche al romanzo e (meno) alla poesia.

Confesso che l’irritazione in me partiva già dal breviario di cinque anni fa, ma anche in quello di oggi l’autore assegna alla letteratura il compito di “dire la verità”, e genericamente alle “storie” quello di “coltivare l’empatia”.

Io penso che la letteratura possa spingerci all’odio, degli altri e di noi stessi, e possa arrivare a farci dubitare di qualunque verità; che serva a mettere ordine nel caos, ma anche caos nell’ordine. Mentre per un politico scatenare l’irrazionalità è pericoloso, e per un giornalista l’ambiguità è un vile difetto, la letteratura invece si fonda sull’ambiguità, sull’ambivalenza (detesto/amo, sono io/non sono io), e sulla suggestione irrazionale.

La metafora (che in un comizio vale come esortazione mirata) è nella sua essenza un falso sillogismo; il pensiero emotivo è illogico per definizione ed esclude che un poeta (ma anche un romanziere) possa essere fino in fondo responsabile delle parole che usa e dei personaggi che inventa. Quando Carofiglio dice che “il messaggio implicito e potente dei populisti è: non devi vergognarti dei tuoi sentimenti più oscuri”, noto che la stessa cosa viene detta implicitamente da molta grande letteratura, da Laclos a Dostoevskij, da Racine a Nabokov, da Sandro Penna a Bret Easton Ellis e oltre. Nel “we can repair this world” di Obama leggo l’origine di Réparer le monde, il libro in cui il critico francese Alexandre Gefen promuove una letteratura che si proponga soprattutto di “fare del bene”.

Di quest’ultima associazione, ovviamente, Carofiglio non è responsabile, ma anche nei suoi romanzi (mettiamo, in La versione di Fenoglio) avverto una tendenza a usare la letteratura per diffondere un messaggio pedagogico. Quando la letteratura punta all’utilità tradisce se stessa; lo stesso Carofiglio, per esempio, in un romanzo più legato all’autobiografia come Il bordo vertiginoso delle cose, non teme la contraddizione e racconta del doloroso stupore di un borghese adolescente di fronte alla scoperta che il compagno violento è quello fortunato in amore. Ma di questo, magari, un’altra volta.

              

   

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