- Sono rientrata in Italia ieri da Londra sul famigerato “volo Covid” da Heathrow a Fiumicino, l’ultimo. Abbiamo trascorso il tempo di volo a riempire i moduli per il vettore, per l’Italia, per il Regno Unito, questi tre restano a noi, quest’altro lo consegnate all’arrivo.
-
I moduli servono a spiegare le ragioni del viaggio e a collocarsi in una delle numerose o eternamente mutevoli categorie umane costrette a intraprendere una simile impresa disperata.
-
Oltre ai moduli, per via della nuova variante inglese del Covid, quella contagiosissima, tutti i passeggeri dei voli dal Regno Unito hanno dovuto fare il test a Fiumicino.
Sono rientrata in Italia ieri da Londra sul famigerato “volo Covid” da Heathrow a Fiumicino, l’ultimo, “il 560”. L’aereo era mezzo vuoto e i passeggeri sembravano essere soprattutto giovani lavoratori e studenti, famigliole che con tutta probabilità stavano portando i figli a conoscere i nonni per la prima volta (uno di questi pargoletti dietro di me era così entusiasta che ha passato il volo a riallinearmi la colonna vertebrale a calci), un sacco di tablet, computer, cuffie.
Abbiamo trascorso il tempo di volo a riempire i moduli per il vettore, i moduli per l’Italia, per il Regno Unito, questi tre restano a noi, quest’altro lo consegnate all’arrivo. Un consiglio per chi si trovasse a viaggiare: portate sempre con voi in aereo una penna bic, MAI una penna a inchiostro liquido, il rischio è che quest’ultima esploda in alta quota sui vostri dieci moduli costringendovi a ricominciare daccapo e a smacchiarvi vestiti e mani per giorni.
Un altro consiglio: non sentitevi mai superiori a qualcun altro perché “avete già riempito quei moduli”. Se c’è una cosa che ho capito è che verrà sempre, per tutti, il momento di bisbigliare al proprio vicino o all’hostess il kafkiano «Che cosa ci si aspetta che dichiari?», il tecnico «Posso saltare la sezione B45032 se ho barrato C53028?» o l’intramontabile «Croce o cerchietto?».
L’odissea dei moduli e dei test
L’odissea dei moduli inizia sull’aereo e prosegue per tutto il tempo di permanenza negli aeroporti, in cui si è sempre certi di avvistare un tavolino con dei nuovi fogli da riempire (guai a ignorarlo) oppure di essere raggiunti da un operatore aeroportuale (mai munito di penne) che sostituisca il modulo riempito cinque minuti prima con uno “più recente”. Il precedente si può, ovviamente, buttare. Ma nessuno osa.
I moduli servono a spiegare le ragioni del viaggio e a collocarsi in una delle numerose o comunque eternamente mutevoli categorie umane costrette a intraprendere una simile impresa disperata: rimpatrio, assoluta urgenza, esigenze di salute, esigenze di lavoro, familiari nell’Unione Europea e così via. L’opzione della vacanza mi sembra sia stata da qualche tempo abolita perché, come una volta mi ha detto un ufficiale di frontiera, «Signorì, io li ho visti… chi va in vacanza a Londra in questo periodo non distingue la destra dalla sinistra».
Oltre ai moduli, per via della nuova variante inglese del Covid, quella contagiosissima, tutti i passeggeri dei voli dal Regno Unito, che si fossero sottoposti in precedenza a tampone o meno, hanno dovuto fare il test a Fiumicino. Che ci fossero delle complicazioni l’abbiamo capito, prima di disporci in una fila ordinata nel corridoio dall’aereo al cubicolo dell’infermiere, dai cinquecento messaggi arrivati sul cellulare di ognuno di noi all’arrivo.
«Sei riuscita a partire?», «Sei riuscita ad arrivare?», «Riuscirai mai a tornare Londra, pensi?», «Io dovrei rientrare il 28, ci riuscirò?», «Ho il volo domani, secondo te è cancellato?», «Ci sono positivi?», «Ti devi isolare? Disdico la faraona?», «C’era qualcuno seduto vicino a te, tossiva?», «Ben tornata», e il più importante: «Sono l’autista, secondo lei quanto ci mette a uscire dall’aeroporto?» al quale subito rispondo, guardando la serpentina umana davanti a me che sembra snodarsi per chilometri, «Guardi, mi dispiace tantissimo, non lo so. Se ha altro da fare la richiamo io quando ho finito», «Ma no, tranquilla, l’aspetto, mi prendo un caffè».
La fila per il tampone per noi che siamo in fondo dura alcune ore, il personale aeroportuale fa avanti e indietro con moduli e piccoli incoraggiamenti, risponde paziente alle domande che si ripetono ogni cinque o sei metri, e sembra che nessuno abbia voglia di fare polemica.
Tutti pare che riflettano sulle stesse questioni, il caso di trovarsi sull’ultimo volo in partenza dal paese che si è scelto, nel quale si lavora, la possibilità che il Natale salti, ma poi cos’è il Natale, la possibilità che il rientro nel luogo di lavoro salti, ma poi perché lavorare nel Regno Unito, Brexit, il modo in cui a volte piccole scelte senza peso si rivelino determinanti, la consapevolezza di essere fortunati, di essere riusciti comunque a spostarsi, e magari la gioia di uscire dall’aeroporto con un test negativo.
A ognuna delle persone incrociate in queste ore ho sorriso e ho detto «Buon Natale». Quando è arrivato il mio turno di fare il test rapido, sono corsa con la mia valigia dall’infermiere in tuta spaziale e gli ho gridato «Buon Natale, Buon Natale» due volte prima che mi infilasse il tampone nel naso. Lui era molto stanco ma sembrava divertito, e quando hanno chiamato il mio numero mezz’ora dopo per darmi il risultato, anche lui mi ha detto «Buon Natale», e ho pensato che per me il Natale del 2020 sarà sempre questo pomeriggio in aeroporto, poi sono corsa a rotta di collo verso il mio autista e il suo caffè durato quattro ore.
© Riproduzione riservata