Cara Nonna,

Siamo di nuovo a luglio e il freddo che porta con sé mi risveglia, mi fa ricordare, mi rende umile. È il freddo in cui hai partorito la mamma e che ha mandato alla malora il nonno. È il freddo in cui hai seppellito il tuo figliolo e la tua gioventù.

A volte, mia cara, mi pare che questo freddo sia entrato così in profondità nelle ossa della nostra famiglia che non riesce più ad uscirne; che lo trasmetteremo di generazione in generazione, di madre in figlia in nipote, finché tutte le donne della nostra gente si trasformeranno in croci di ghiaccio.

Ho tante cose da chiederti, domande alle quali solo tu puoi rispondere. Perché non mettono radici gli alberi di mele nel mio giardino? Perché mi soverchia la paura in piena notte? Perché non posso smettere dal comprare aghi, con cui non cucio nulla, mai?

Ma soprattutto, mia cara nonna, vorrei chiederti come sia più saggio, nel corso della vita, passar sopra a un’ingiustizia: odiando o perdonando? Poiché, come sai, dolcezza mia, noi abbiamo perdonato, ma non si doveva. In questo modo abbiamo portato di nuovo la guerra alle nostre porte.

© Dirk Skiba

Sono anch’io lontano da casa. Ho passeggiato oggi per Roma, questa città generosa e sempre indaffarata come un anziano; nella sua luce sfolgorante, come non ti è mai capitato di vedere.

Sono entrata nelle librerie e nelle sue chiese sempre piene – libri e fede, quante persone uccise in nome loro. È più facile uccidere ciò che non si comprende, non sei forse tu la persona che lo sa meglio?

Penso oggi a te, mia cara, fra queste splendide rovine, accudite e medicate dai suoi abitanti come se fossero delle ferite aperte. Buon segno, segno che qui le persone non dimenticano il proprio passato, non lo lasciano in balia del caso, ma lo riportano alla luce e se ne prendono cura, come noi non abbiamo saputo fare col nostro.

«Quanta fatica per delle pietre!», so che diresti ora tu, che hai incontrato nella tua vita più pietre che uomini.

Sono settantacinque anni da quando sei morta per la prima volta. Morire non vuol dire forse anche questo: essere strappato dalle radici, con tutto che ti viene portato via, ed essere gettato in una terra straniera che non ti vuole?

«L’essere umano può vivere anche se è morto», mi dicevi, «salvo che non è più un essere umano». Ma che cos’è l’uomo? Cosa ci fa essere uomini – lo spirito, il corpo, la coscienza? Quanti fra noi sono vivi solo per metà, eppure viviamo?

Me lo chiedo ora, ora che ho quasi la stessa tua età di quando fosti deportata, un’età in cui, dice la gente, ho ottenuto già tutto. Non so quante cose avessi messo insieme tu alla mia età. Due mucche, una vigna, otto sacchi di grano – questo c’era scritto nel dossier che ti riguardava. Poca roba per me – le spese di un po’ di mesi – ma abbastanza per te per essere deportata come una criminale.

Quanto più invecchio, tanto più il ricordo di quella notte nella mia mente rinverdisce. Vi vedo sempre più chiaramente. Eccovi, due contadini verecondi, senza troppo studio o ambizione. Lavorare e credere in Dio, così siete stati educati, così avete vissuto, questo vi ha portato alla rovina: il lavoro e la vostra professione di fede.

È possibile che quella notte eravate felici, o magari eravate solo stanchi. Avevate raccolto il grano, tu preparasti il pane con la prima farina, avevi una creatura in grembo. Dormivi, o forse, come me, non riuscivi affatto a dormire e pensavi a cosa si dovesse fare l’indomani, un mese dopo, l’anno dopo.

Sappi, mia cara, che ho pensato mille volte a una sola cosa: quando vi entrarono in casa i soldati, tu eri riuscita a essere felice? Pensasti allora, come capita a me di avvertire sempre più spesso, che il poco che ti fu dato era stato sufficiente? Che nessun soldato, nessun treno al mondo può toglierti ciò che hai già vissuto?

I nemici di quale popolo

Penso a te, ma anche alle decine di migliaia di moldavi, strappati una notte dai loro letti, caricati in vagoni ferroviari per bestiame e mandati nel Gulag. Nemici del popolo, vi chiamarono. Di quale popolo? Quanti morirono con questa domanda sulle labbra, quanti sono sopravvissuti e non hanno più ricevuto risposta? Nessuna prova, nessuna scusante, sepolti vivi in una pagina di storia polverosa, ridotti ad alcune cifre e a delle foto ingiallite.

Ti parlo oggi in questa lingua straniera, che cominciai ad imparare in casa tua, un’estate, te ne rammenti? Tu portavi acqua dal pozzo, e io dicevo acqua. Tu annaffiavi il giardino, e io dicevo giardino. Uccello, mela, ragazzo. E più tardi, continuando ad ascoltarti mentre parlavi da sola nel cortile – comunista, morte, vendetta. Imparai allora molte parole che non dovevo pronunciare nella nostra lingua.

«Ma con chi parlerai in italiano in questa vita?», mi chiedevi tu, provata e timorosa, così come ti avevano resa i lavori pesanti e i traditori. Ed ecco, mia cara, parlo oggi con te.

Gente di nessuno, mi raccontavi nell’infanzia, Un inverno che non finisce mai, L’ago. Mi piacevano alla follia le tue storie complicate, su quel luogo scintillante e remoto – la Siberia; su brave persone che erano diventate all’improvviso malvagie a causa di certe liste di proscrizione; sul drago dalle squame rosso fuoco, che anziché ustionare col suo soffio, gelava ogni cosa intorno a sé.

Le ascoltavo col cuore in gola, le amavo e volevo viverci dentro perché tu avevi vissuto in loro. A quel tempo non capivo perché a volte, a metà di una frase, ti tremasse la voce, e il volto ti si inumidisse di lacrime. Credevo che facessero questo tutti i bravi narratori: fingersi tristi o addolorati per essere creduti. Solo a distanza di anni ho capito che tu, mia dolce nonna, eri l’unica narrante che faceva finta per non essere creduta. Per questo ti ringrazio – perché hai tenuto in serbo per me le storie intemerate.

Nascondersi

Hai sentito forse che ho cominciato a scrivere anch’io e che la scrittura mi porta in luoghi in cui non avrei mai creduto di arrivare. Sono arrivata lontano: mi apprezzano e mi vogliono bene gli stranieri. So nascondermi dietro le parole, così come mi nascondevo nell’infanzia nella soffitta di casa tua. «Nasconditi nei luoghi che ti fanno più paura», m’insegnasti allora e così faccio ancora oggi.

Scrivo, mia cara, di malattia e morte, di dolore e crudeltà, di mancanza d’amore e di slealtà. Sempre sugli altri, sempre per gli altri. Tu devi però sapere: in tutti questi anni ho scritto un’unica storia, la tua storia. Nei miei libri Tu sei e bambino e uccello, e giardino e vita e morte. Ti ho occultata in tutte le mie paure e lì, mano nella mano, ce ne stiamo entrambe in attesa che passi l’inverno che non finisce mai. La Storia dimentica, mia cara, ma non dubitare mai di una cosa: una storia rimane nella memoria di una famiglia, anche se viene cancellata dalla memoria di un paese.

(traduzione dall’originale romeno di Bruno Mazzoni)

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