La sala di uno degli spazi più importanti del teatro sperimentale a Roma, l’Angelo Mai, è vuota. Ci sono solo le piccole tribune di metallo, per qualche decina di posti, affacciate su un grande spazio senza quinte né palco, con un’asta e un microfono al centro.

Una donna in un vestito elegante e scarpe con tacchi argentati entra in scena e comincia a interpellare il pubblico e parlare di sesso, pandemia, età adulta, matrimonio… roba normale da monologo di stand up, ma non è il pubblico della stand up: non è gente uscita per andare a bere una cosa e sentire i comici improvvisare o raffinare il proprio materiale. Il pubblico in sala sembra gente che di solito va a vedere teatro sperimentale.

Come lo so? Siamo quasi tutte donne. Non più di sette uomini. Le donne sono tutte femministe. E queste femministe che di solito vanno a vedere il teatro sperimentale scoppiano a ridere a due tipi di battute, soprattutto: quelle sul patriarcato, qui reincarnato in una specie di Commenda ingrifato; e le battute su quanto sono belle ed eleganti certe lesbiche delle librerie-bistrot femministe, che quando parlano con Luisa Merloni le dicono intenerite: “Ah… poverina… tu ancora hai a che fare coi maschi… si vede…”.

Battute esoteriche, che culminano, dopo un’ora di spettacolo, in cinque minuti finali di umorismo sulle aspirazioni e i manierismi del teatrodanza. L’imitazione di una danzatrice velleitaria suscita risate perfino sguaiate, segno che gran parte delle presenti ha passato gli autunni romani al Romaeuropa Festival a guardare Sasha Waltz, Anne Teresa De Keersmaeker e Akram Kahn.

Il codice stand up

Lo spettacolo si chiama Aristotele’s Bermuda e, nonostante il contesto poco pop, di fatto è stato scritto come una specie di speciale di stand up comedy da Teatro Parenti di Milano, da speciale su Netflix: Merloni sta un’ora in scena, fa battute, si lavora il pubblico, racconta storie: il codice è quello. Luisa Merloni, una vita dedicata «a tutto ciò che c’è di antieconomico nel mondo del teatro», ha usato gli schemi della stand up perché c’era la pandemia, e una cosa così semplice da produrre poteva realisticamente farla tornare in scena.

La stand up ha avuto una storia interessante di assimilazione in Italia. La generazione che l’ha imposta durante gli anni Dieci è fatta per lo più di nati tra la fine degli Ottanta e gli anni Novanta – i vari Ferrario, Giraud, De Carlo, Raimondo – che l’hanno imparata, prima dell’ondata di speciali sulle piattaforme di streaming, dalla prima vera piattaforma video: YouTube. Dieci anni fa, Edoardo Ferrario, conosciuto a Roma in un giro di futuri comici e musicisti indie, mi diceva che in Italia c’erano solo Zelig e Colorado Café ed era impossibile fare una comicità più intelligente.

La stand up si è evoluta in Italia grazie alle serate organizzate per anni con ostinazione da questa scena di comici che nelle varie città d’Italia cercava posti per fare palco: per darsi in pasto al pubblico ogni sera. La stand up infatti non si scrive a freddo; gli spettacoli lunghi, gli speciali, si compongono testando le proprie storie e battute e le reazioni del pubblico sera dopo sera. È la cosa affascinante della stand up rispetto al monologo scritto e agli sketch.

Ma come sa chi è andato a cercare di capire come funzionano i comedy club americani (per esempio i produttori-scrittori Giulio D’Antona e Jacopo Cirillo, che hanno fondato la compagnia di produzione Aguilar e portato i comici italiani su Netflix), sono posti nazionalpopolari. La stand up italiana può aver avuto all’inizio un pubblico “alternativo” o “indie”, ma è condannata a essere un’economia di scala: servono locali, gente che va a bere, serve macinare ore per raggiungere un buon livello, per creare un mondo. Il risultato è che tende a essere un’arte generalista.

Tende a premiare chi racconta cose comprensibili a tutti. I comedy club non sono né circoli di intellettuali né teatri né gallerie d’arte: sono postacci mainstream dove andare a bere facendosi intrattenere. Lo spettacolo di Luisa Merloni quindi rappresenta un’eccezione affascinante perché si rivolge a un pubblico che più di nicchia non si può e parla di cose ultra specifiche.

Bazzicare certi ambienti

La battuta sulla bellezza e la superiorità estetica generale di certe donne omosessuali rispetto alle eterosessuali non è incomprensibile in assoluto, ma le sue sfumature sono create per un campione demografico minuscolo: fa ridere chi ha bazzicato certi ambienti dove veramente le donne omosessuali rispetto, come dice Merloni, a quelle che ancora non si sono sbarazzate degli uomini, sembrano degli angeli pansessuali vestiti da Virgil Abloh.

Quando Merloni crea il personaggio del Patriarcato, questo Commenda bavoso e chtulesco che le femministe evocano loro malgrado perché ne parlano ossessivamente, e il Commenda arriva e dice “sììììì, fammi vedere le tetteeeee”, apparentemente, come grammatica, è divertimento generalista da stand up, ma a me pare che faccia ridere soprattutto perché il patto con il pubblico – 90 per cento donne e femministe – è talmente forte che chi la guarda, e ride, sta ripercorrendo a mente le decine di tesi e controtesi che hanno portato il mondo femminista a dire: è vero, citiamo il Patriarcato ossessivamente, ma dobbiamo continuare a farlo. In qualche modo, se non hai parlato ossessivamente di patriarcato non puoi riderne.

Le origini serie

Forse è per questa affinità con il suo pubblico che Merloni riesce a costruire qualcosa che sa del materiale limatissimo della stand up pur senza averlo provato nei comedy club. D’altronde, però, e questa contraddizione mi affascina più di tutto, c’è qualcosa di cattivo, di contrarian, nell’usare un genere così pop davanti a un pubblico controculturale.

Quindi Merloni, che pure in scena ha una delivery tenera, crea un personaggio-Merloni vulnerabile, impacciato, disperato, rivela di essere quel tipo di stand up comedian che vive di scomodità, vive per far sentire al pubblico che in scena si sta facendo qualcosa di sbagliato: non dovremmo essere tutte al teatro Argentina a guardare un coreografo greco che decostruisce la figura del toro, invece di stare qui a ridere?

Questa possibilità di una stand up alternativa ha una lunga storia. Merloni nasce nel teatro indipendente, dove in una compagnia con la regista Manuela Cherubini gira il mondo in cerca di autori nuovi come Juan Mayorga o Rafael Spregelburd: soprattutto testi spagnoli e argentini: «Testi abbastanza seri», dice lei.

Ma intanto, alla fine degli anni Novanta va a Parigi («per non essere stata presa all’accademia») e lì, tra corsi di cinema e teatro, scopre il mondo del clown teatrale, che le insegna a parlare col pubblico. «Perché il clown pure fa lo spettacolo solo sul capire le reazioni del pubblico». Ed è questa la cosa che più avanti le permetterà di capire la stand up: «Il clown è la condizione di vulnerabilità assoluta: sei davanti al pubblico, e se non trovi il modo di far ridere, non c’è nient’altro. È come la stand up».

Il primo spettacolo comico lo scrive nel 2017, si chiama Farsi fuori, e per questo viene convocata da Ugo, la comunità-serata romana di autrici comiche e attrici che ha girato molto a Roma negli ultimi anni, aiutando a capire cosa può essere la scrittura comica delle donne (Veronica Raimo, anche lei coinvolta in Ugo e convertita, si è ritrovata a scrivere un memoir comico, Niente di vero, esce in questi giorni per Einaudi). Per Ugo, prima Merloni interpreta i pezzi di Francesca Staasch, poi inizia a scriverne di suoi.

Da lì arriva quindi a fare un pezzo a Propaganda Live, dove trova il pubblico mainstream “mmm, spaesato... infastidito…”. E oggi, dopo Aristotele’s Bermuda, ha scritto di nuovo una cosa di teatro dove c’è «Freud che parla male di Recalcati». Insomma, un’artista che si troverà sempre d’accordo con una minoranza delle persone. Ma, a differenza di Nanni Moretti che ha scritto la battuta, nel caso di Merloni è vero.

 

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