- Raccontare le storie di questi uomini (e del leader che hanno protetto) significa compiere un viaggio a ritroso, nella memoria, intorno alla figura di Enrico Berlinguer.
- E infine bisogna provare a dire cosa fosse la mitica «vigilanza» di Botteghe Oscure e chi faceva parte di questo gruppo selezionatissimo di militanti che aveva l’onore (e l’onere) di costituire il nucleo centrale e incandescente, il nocciolo duro del Pci.
- Uomini come Menichelli, e con lui i tre diversi nuclei intorno a cui era nata e si era strutturata la scorta di Berlinguer (quello romano, quello toscano e quello emiliano), erano anche la sintesi della stratificazione di diverse generazioni e di diverse anime del Pci, l’autobiografia involontaria di un partito.
Questa è la storia di una scorta, ma è anche la storia di un gruppo di uomini: vite che simbolicamente raccontano un partito, una stagione di ideali, la lotta per un’utopia democratica, negli anni in cui la nostra Repubblica era giovane e il popolo della sinistra pieno di speranze.
Leggere questa storia oggi, invece, è come prendere una boccata d’aria che ti ristora dall’asfissia dei tempi. È come essere percorsi da un brivido di emozione che ti attraversa e ti solleva, come essere stritolati da un morso di nostalgia amara che ti avviluppa la gola.
Raccontare le storie di questi uomini (e del leader che hanno protetto) significa compiere un viaggio a ritroso, nella memoria, intorno alla figura di Enrico Berlinguer. Un viaggio che ci restituisce una strana sensazione di straniamento e di contrasto rispetto alle cronache desolanti della politica contemporanea, ai governi tecnici costruiti in provetta o in laboratorio, alle apocalissi pandemiche, ai voltagabbana che cambiano i partiti come le scarpe, agli gnomi della bassa politica, ai condottieri di plastica che vivono o muoiono per un tweet o per un meme, nel salto di epoca abissale che ci separa dai tempi passati in cui le scorte proteggevano la democrazia a quello presente in cui, troppo spesso, difendono i privilegi.
La vita per il partito
Ma, innanzitutto, è necessario dire chi erano questi uomini e cosa era il partito a cui dedicarono la loro vita.
Bisogna raccontare il primo di loro, Alberto Menichelli, che fu molto più di un autista o di un caposcorta: il responsabile indiscusso della sicurezza del segretario del Pci. E subito dopo occorre ricordare – perlomeno a chi non c’era – che Botteghe Oscure, il mitico palazzo che fu la sede del Pci, il teatro maestoso dove è ambientata questa storia, fu allo stesso tempo una fortezza blindata (talvolta assediata) e la concretizzazione di un’idea: partito novecentesco, macchina organizzativa, ufficio studi, insieme apparato e pensatoio.
E infine bisogna provare a dire cosa fosse la mitica «vigilanza» di Botteghe Oscure e chi faceva parte di questo gruppo selezionatissimo di militanti che aveva l’onore (e l’onere) di costituire il nucleo centrale e incandescente, il nocciolo duro del Pci: angeli custodi, depositari di segreti politici, quadri e dirigenti ma – prima ancora – uomini mossi da folgoranti passioni.
Uno dei reperti più belli che incontrerete tra breve, tratto dall’imponente archivio di Menichelli, è la lettera di presentazione severissima (ma anche piena di burocratico orgoglio) con cui la sezione romana del Pci a cui era iscritto lo raccontava alla direzione del partito garantendo non solo della sua «affidabilità», non solo della sua «morale», ma persino di quella «di tutta la sua famiglia».
Il Pci degli anni Sessanta
Erano quelli i tempi, alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, in cui un segretario di sezione aveva più responsabilità di un sindaco e più potere di un prefetto. Era un leader che guidava un piccolo mondo, decideva svolte nelle biografie delle persone, governava un pezzo del Paese nel Paese, passioni e vite insieme.
Uomini come Menichelli, e con lui i tre diversi nuclei intorno a cui era nata e si era strutturata la scorta di Berlinguer (quello romano, quello toscano e quello emiliano), erano anche la sintesi della stratificazione di diverse generazioni e di diverse anime del Pci, l’autobiografia involontaria di un partito.
Si andava da chi, come il decano Dante Franceschini, aveva fatto la Resistenza, al fianco di un certo Sandro Pertini, e aveva partecipato alla liberazione di Firenze, con le armi in pugno, ad altri, come Pietro Alessandrelli e lo stesso Menichelli, che erano figli del partito nuovo togliattiano, a Roma.
C’era ovviamente chi, come il modenese Lauro Righi, veniva dall’Emilia rossa. C’erano i membri del secondo gruppo che si dava il cambio con loro: Alberto Marani, Torquato Grassi detto «Otto» e Roberto Bertuzzi. In particolare Roberto, che veniva dall’esperienza delle fabbriche metalmeccaniche e delle lotte operaie degli anni Settanta, è stato il mio Virgilio comunista, nel lungo viaggio in un mondo scomparso.
Assieme a tanti altri testimoni straordinari: mogli e figli che condivisero anni di ferro e di fuoco, anche a costo di pagare alti costi umani. Ex bambini, oggi cinquantenni, che hanno conservato ricordi vivissimi. Se si guarda alle anagrafi, invece, tra il più anziano (Franceschini) e il più giovane (Bertuzzi) intercorrevano quasi trent’anni: più di una vita.
Ma il ruolo di questi uomini, e l’epoca in cui si svolse la loro esperienza, tre lustri fulminei a cavallo tra gli anni di piombo e la grande avanzata del Pci, li resero tutti ugualmente interpreti (e a volte persino protagonisti) di passaggi cruciali della storia italiana e internazionale: le lotte operaie, il Vietnam, l’eurocomunismo, il golpe in Cile, gli euromissili, l’attentato contro Berlinguer in Bulgaria, lo strappo in due tempi del segretario con Mosca.
Le grandi battaglie civili, i movimenti per la pace, intrecciati con la lotta senza quartiere al terrorismo rosso e nero, la stagione oscura dei golpe, e le leggi più avanzate che quegli anni abbiano partorito.
L’invasione della Cecoslovacchia da parte dell’Unione Sovietica, il colpo di Stato del generale Jaruzelski in Polonia, la sfida di Berlinguer a Brežnev a Mosca, la battaglia politica del leader comunista, di fatto su due fronti: contro la destra da un lato e contro il craxismo dall’altro. E, infine, il passaggio dal compromesso storico all’alternativa democratica, che disegnano, in questa intensissima traiettoria, le due grandi stagioni della politica berlingueriana.
La morte di Berlinguer
La morte del segretario comunista, sul palco di Padova, davanti agli occhi dei suoi uomini, impotenti e disperati, mentre lo vedono precipitare in un sonno senza ritorno per colpa di un ictus, è il finale drammatico di un’avventura straordinaria, il sigillo di una vita vissuta senza un momento di respiro.
La scorta di Berlinguer fu il fiore all’occhiello di un intero apparato. E questo orgoglio ebbe una controprova drammatica nell’imminenza del voto sul governo della cosiddetta «solidarietà nazionale» nel 1978, quando sotto gli occhi dei loro uomini (e con la loro comprensibile apprensione), si incontrarono i due leader della Dc e del Pci.
La scorta di Berlinguer (per via di un buffo errore di Moro, come vedremo) conobbe quella del presidente della Democrazia cristiana (che ovviamente era composta da carabinieri e agenti di polizia) già nell’anno precedente in occasione di incontri segreti e ufficiali tra i due dirigenti.
Il capo della scorta di Moro, quel maresciallo Oreste Leonardi che solo poche ore dopo l’ultimo di questi incontri morirà trucidato nella strage di via Fani, rimase affascinato dalla macchina corazzata a disposizione del collega.
Ma Leonardi quel giorno fa di più: spiega agli uomini del Pci, che lo ascoltano stupefatti, che loro un’auto blindata come quella del leader comunista l’avevano chiesta al ministero dell’Interno senza mai ottenerla (un racconto che oggi è materia per gli storici del sequestro più inquietante della storia repubblicana). Alberto, Dante, Lauro e tutti gli altri rimangono impressionati da quella implicita ammissione di impotenza. E, come scopriremo, saranno ancora più sconvolti alla notizia della morte di quegli uomini nel fuoco del sanguinoso agguato brigatista.
L’incontro con Moro
La vettura del presidente della Dc e il suo autista verranno letteralmente crivellati di colpi. Che brivido di inquietante premonizione per quel «Beati voi!» rivolto da Leonardi agli angeli custodi di Berlinguer, se si immagina che le Brigate rosse riuscirono a portare a termine l’attentato anche e proprio perché alla scorta di Moro era stata negata la blindata. Dopo la strage di via Fani, Menichelli e gli altri passeranno un intero pomeriggio a studiare la dinamica dell’attentato e il finto tamponamento che aveva bloccato l’auto del presidente della Dc. «Con la nostra auto staffetta» racconta Alberto «non sarebbe accaduto.»
Non c’è apologia, e nemmeno agiografia in questo racconto: solo un’asciutta e preziosa esattezza, da cui la normalità di quella classe dirigente, rispetto alla irresponsabile follia di quella presente, sembra davvero un bene rifugio.
Quello lanciato dalla scorta di Berlinguer non è il sospiro nostalgico per un passato che non tornerà mai: è il seme di una storia che oggi può far nascere nuovi frutti con il suo esempio. Una, dieci, mille scelte di vita.
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