Il centrocampista tedesco ha giocato la sua ultima partita l’altra sera, nei quarti di finale agli Europei contro la Spagna. I suoi 34 anni sono come le tre del pomeriggio di Jean-Paul Sartre, «troppo presto o troppo tardi per qualsiasi cosa si voglia fare». Guardando i 39 del declino di Cristiano, diremo che sono giusti per smettere
I trentaquattro anni di Toni Kroos sono come le tre di pomeriggio di Jean-Paul Sartre: «troppo presto o troppo tardi per qualsiasi cosa si voglia fare», ma guardando i trentanove del declino di Cristiano Ronaldo che sembra stare in campo solo per collezionare facce del lamento e tirar punizioni in curva, diremo che sono giusti per smettere, visto che appartengono all’uomo che ha controllato i tempi calcistici alla perfezione.
Toni Kroos lascia il pallone, ed è come se smettessero di pensare il Real Madrid e la Germania. «Il calcio è un pensiero del corpo» diceva Roberto Perfumo, difensore argentino quindi filosofo, e il corpo di Toni Kroos ne ha avuti campi e palloni di quei pensieri e non solo, ha anche regolato la velocità di quelli degli altri.
Carlo Ancelotti per spiegare il calcio di Kroos disse: «Se Toni vuole che la squadra giochi lentamente, noi andremo lentamente», e Casemiro aggiunse, in triangolazione: «Se Toni chiede che si giochi velocemente, noi giocheremo velocemente, è lui che decide tutto».
Notate come l’allenatore del Real Madrid e uno dei calciatori protagonisti di questi anni dei blancos si siano con naturalezza piegati ai tempi di Toni Kroos, perché è quasi tutto qua il suo calcio, il resto è come governa il ritmo.
Perché a prescindere del tempo che Toni sceglie rimangono immutate la sua tecnica, la sua geometria e soprattutto la sua centralità.
Come Clint
Toni oltre il tempo è la manutenzione tecnica delle squadre che governa. Perché sa che il calcio si gioca anche senza palla. La pressione di Kroos è assoluta ed è dovuta alla sua presenza divenuta subito autorità.
Per questo può chiedere il pallone e darlo. Non si conosce nessun calciatore che si sia mai lamentato di un suo passaggio. Sempre al posto giusto e con la velocità giusta. Kroos può chiedere di essere servito, non importa come, e servire in un modo migliore. Perché non presta attenzione a come riceve la palla, ma solo a come la redistribuisce. È il cervello delle squadre.
Decidendo tempo di movimento e direzione. Come un regista. Fa pensare a Clint Eastwood per la semplicità e l’efficacia, la profondità e la forza; a Berlino, Madrid, Monaco e Hollywood tutti sanno che non li fanno più uomini così, che sono l’ultima espressione di un tempo, per questo ne contengono e ne rilasciano tanti.
Come in Eastwood convivono Don Siegel, John Huston e Sergio Leone, in Kroos si rivedono Uli Stielike, Bernd Schuster e Franz Beckenbauer. Dopo sarà difficile quasi impossibile riavere uomini di questa natura, e per capirlo basta andare all’ostinazione eastwoodiana che Kroos ha per le scarpe.
Le stesse scarpe 15 anni
Da undici anni gioca con lo stesso modello: le Adipure 11 Pro dell’Adidas e con una suola che ne ha 15 di anni, e il colore deve essere bianco, solo bianco, perché quando abbassa gli occhi sul verde del campo deve sapere che è quello il colore delle sue scarpe e non ritrovarsi in viola o rosso perché sarebbe una sorpresa per il suo genio burocratico che sta sistemando gli altri 10 calciatori che gli ruotano intorno.
In un mondo che cambia velocemente Kroos è quello che sta fermo, perché è il Signore del tempo e gli bastano i tempi di calcio che lo attraversano, non gli serve il casino di maglie, scarpe, tute, palloni, vite. Ed è l’unico – al suo livello di calcio – che si prende ancora cura personalmente delle scarpe, non ne vuole sapere di affidarle ai magazzinieri. Lava, asciuga, lucida.
Un po’ come il pallone in campo: la squadra lo affida a lui e lui lo gestisce al meglio, per tutto il resto leggete le cronache delle partite e il numero di passaggi sbagliati da Kroos. Pochi, sempre pochi, a volte nessuno.
Come nessun magazziniere potrebbe avere una cura maggiore di quella che lui ha per le scarpe e di conseguenza del pallone che tocca le scarpe e dei compagni che lo riceveranno.
È una catena di pensieri e tempi e corpi governata da Kroos fin da quando ascoltando i consigli di suo padre Roland, allenatore, giocava sempre, anche in casa, insieme al fratello Felix, divenuto calciatore a sua volta, con la madre Birgit Kämmer che invece di sgridare stava in porta e cercava di parare e limitare i danni.
La tranquillità di Toni comincia dall’infanzia e dagli interni della sua famiglia e poi arriva al campo senza l’ansia degli impedimenti, la pressione del non poter provare in salotto un tiro, anzi con una memoria di spazi differenti arriva a 15 anni al Bayern Monaco.
Firma, e comincia a produrre pensieri del corpo in larga scala. Vince sei Champions, una a Monaco e cinque a Madrid, il mondiale di calcio in Brasile nel 2014 e un mucchio di campionati in Germania e Spagna, ma soprattutto gioca dal 2007 all’altra sera all’incrocio dei venti, fa il centro della giostra.
Infine decide che le cose ci sono poi non ci sono più e sceglie l’addio, dopo essere tornato a giocare in nazionale su richiesta di Julian Nagelsmann. Il telefono ha squillato, lui ha risposto, è tornato, ha giocato, poi ha di nuovo misurato l’assenza di vita senza pallone, stavolta senza appello. Potrebbe continuare a giocare? Certo. Servirebbe? No.
Per capirlo bisogna guardare Cristiano Ronaldo e il suo non voler avere tempo. Kroos conosce troppo bene il tempo per superarlo. Per questo ha dribblato Sartre, ha scavalcato le ossessioni di Ronaldo, le richieste di Ancelotti e Nagelsmann e se ne è tornato a casa, dove continuerà a giocare con i figli e la moglie, senza che nessuno lo ammonisca o gli fischi un fuorigioco. Da padrone del tempo degli altri, ha scelto di essere padrone solo del suo.
© Riproduzione riservata