- “Prato”, per me che amo i concerti, è una parola bella perché, quando è scritta sul biglietto, accanto a “settore”, dà diritto ad accedere al luogo più emozionante da cui assistere.
- È da quattordici mesi che non vado a un concerto: da quando è scoppiata la pandemia la tecnologia ci ha permesso di tirare avanti, ha tappato tanti buchi ma i concerti no, sono rimasti una voragine aperta.
- L’esperienza della musica dal vivo non si può materialmente surrogare perché, appunto, di materia è composta. Oltre che di watt e vibrazioni: di spazio, contatto, odori, temperatura. Soprattutto di carne e ossa. «La gente voleva vedere il corpo», ha detto Lou Reed.
Torneranno i prati? Me lo chiedo da amante dei concerti. Di ogni genere, ma soprattutto rock. “Prato”, per me che amo i concerti, è una parola bella perché, quando è scritta sul biglietto, accanto a “settore”, dà diritto ad accedere al luogo più emozionante da cui assistere: il prato (o il parterre, o la platea, insomma tutto ma non gli spalti). È una lezione che ho imparato fin dall’inizio della mia carriera di spettatore: ancora non lo sapevo il 9 luglio del 1993, il primo concerto della mia vita, o meglio, il primo in un grande stadio. Lo aspettavo da sei anni.
Dopo una notte in treno arrivammo davanti ai cancelli alle sei del mattino così che, quando li avessero aperti (alle cinque del pomeriggio) saremmo stati i primi a correre sul prato come Heidi verso le transenne della prima fila. Abbiamo resistito undici ore: immobili, sotto un sole di luglio sempre più implacabile, senza nuvole, alberi o oggetti ad ostacolarne i raggi che si abbattevano su di noi, liquefacevano l’asfalto su cui eravamo seduti, arroventavano il ferro delle ringhiere a cui eravamo appoggiati. Il mio “amico di concerti”, per di più, punto in faccia da una delle vespe che avevano fatto il nido proprio lì.
Quando si aprirono i cancelli eravamo a pezzi, disidratati e con un principio di allucinazioni. Ma eravamo i primi.
Corsi. E, mentre correvo, per un attimo lo intravidi, in uno spiraglio tra le tribune: il prato. Non era un’allucinazione. Corsi. Superai il primo controllo di polizia della mia vita. Corsi. Superai i primi cani antidroga della mia vita. Corsi. Furono gli addetti ai biglietti a fermarmi: sul mio non c’era scritto “prato” e quindi sul prato non ci potevo andare. Non lo sapevo. Li implorai. Mi risero in faccia. Undici ore sotto il sole davanti all’ingresso sbagliato. Se ho pianto l’ho rimosso. Ricordo, però, dolore, rabbia, frustrazione.
Mezz’ora dopo, in un modo parecchio illegale, su quel prato arrivai lo stesso. E capii cosa vuol dire davvero “Prato”: stare in piedi, tanto per cominciare. Per ore. Al caldo e al freddo, sotto il sole e la pioggia, nella gioia e nel dolore. Corpo umano stretto tra migliaia di corpi umani, i sudori che si mischiano, l’aria esalata da uno che viene inalata dall’altro (a ripensarci oggi, anno 1 d.C., dopo Covid, fa impressione). Corpi, con i loro afrori, fetori, odori, umori, voci, statura, segni particolari, tic, capelli, ascelle, scarpe, vestiti, zainetti, panini, birre sgasate, canne.
Così pigiati che se svieni resti in piedi. Impossibile anche solo piegarsi un po’ in avanti per dare tregua alla schiena che, dopo due ore così, viene trafitta da una lancia di Longino. Allo scoccare delle tre ore, invece, si ripete il miracolo della transustanziazione dei piedi in blocchetti di cemento armato brutalista. È uno strazio. È bellissimo.
Sotto al palco
Certo, c’è prato e prato: con l’avanzare dell’età, l’anziano che è in me si è ringalluzzito, è diventato sempre più prevaricatore e ha preso a bullizzare l’ansia giovanile che mi spingeva a essere sul posto otto ore prima (all’alba, solo quella prima volta). Da otto a cinque, poi tre, due ore. Ultimamente arrivavo sempre più a ridosso dell’orario di inizio, e prendevo sempre più le distanze dalle transenne sotto il palco.
Messo piede sul prato, l’anziano che è in me scrutava la location con la stessa attenzione con cui osserva i cantieri, alla ricerca del lotto di terreno ideale, vicino al palco ma lontano dalla bolgia delle prime file, alla giusta distanza dalle casse ma anche dal bar, e che nei paraggi non ci fossero i 203 centimetri da Nba di Gigi Datome, come mi è capitato una volta.
Per la gioia del mio anziano interiore, da qualche anno sui biglietti si è aggiunta la parolina pit. Indica un’area a ingresso limitato, sotto il palco, una sorta di privé che, ovviamente pagando di più, concede il privilegio delle prime file senza incrinarmi due costole a differenza di un tempo, quando il pit era la zona più calda, dove si scatenava il pogo più violento: grazie alla gentrificazione dei concerti rock, da quartiere malfamato il pit si è trasformato in zona residenziale di prestigio, pago e pretendo.
È da quattordici mesi che non vado a un concerto: da quando è scoppiata la pandemia la tecnologia ci ha permesso di tirare avanti, ha tappato tanti buchi ma i concerti no, sono rimasti una voragine aperta. I concerti si sono fermati. Nessun digitale è riuscito a riprodurne l’esperienza analogica.
La crisi
Lo sa bene chi con i concerti ci vive. Non solo gli artisti, anche centinaia di migliaia di lavoratori: «Montatori e direttori di palco, fonici, autonomi, partite Iva, service, maestranze, i non assunti delle piccole strutture che non hanno avuto diritto alla cassa integrazione e ai ristori concessi a un settore che, come l’agricoltura, prevede contratti a giornata», mi spiega Dino Lupelli, una vita a organizzare eventi musicali, oggi direttore generale di Music Innovation Hub, società che sviluppa progetti per implementare l’industria musicale italiana e che quest’anno, per sostenere proprio quei lavoratori, ha contribuito a creare due fondi (Sosteniamo la musica e Scena Unita) che hanno raccolto rispettivamente novecentomila euro e 2,6 milioni. «Il governo ha distribuito un sacco di soldi a pioggia ma molti non li hanno nemmeno visti perché la musica live è difficile da fotografare con precisione: c’è tanto lavoro sommerso, tante sigle, tantissima frammentazione».
Leggendo anche solo i dati della Siae la situazione è drammatica: 39.844 concerti nel 2019 (18.223 di musica leggera), 13.559 nel 2020 (-65,97 per cento) per 15.320.690 spettatori che diventano 2.575.038. La spesa al botteghino è calata da 443.142.376,02 a 47.311.174,76 euro.
Secondo KeepOn Live (associazione di categoria di 289 tra live club e festival italiani) i concerti annullati nel 2020 sono stati circa 15mila, per un mancato incasso di cinquanta milioni di euro a fronte di dieci milioni di costi fissi comunque sostenuti. Secondo Assomusica (riunisce grandi organizzatori e produttori di spettacoli di musica dal vivo che realizzano circa l’80 per cento dei concerti) il calo di fatturato è arrivato anche al 97 per cento. La metà dei live club non sa se riaprirà: solo a Milano, dove vivo, negli ultimi mesi hanno chiuso Spazio Ligera, Circolo Arci Ohibò, Serraglio e Blues House, di cui mi restano bei ricordi di concerti (in particolare i Mercury Rev al Serraglio per l’anniversario di Deserter’s Songs).
Lupelli, però, è ottimista: «Per la prima volta nel mondo della musica c’è uno spirito corporativo, una serie di soggetti sono stati costretti a parlarsi per presentare al ministero una proposta unica, e in parlamento si sono sentite le parole “live club”. Bisognerà ripartire da due punti: il lavoro nero non deve più esistere e lo stato deve permetterci di pagare le tasse, riducendole. La detassazione è una forma di contribuzione a un sistema che è culturale».
L’attesa
Nel presente, però, la situazione non è bella. Né sotto né sopra né dietro il palco. In fondo al tunnel non si vede nessuna luce stroboscopica. A noi spettatori non resta che l’attesa, ma è diversa da quella a cui ero abituato. I concerti erano tutta un’attesa: dell’annuncio del tour, della pubblicazione delle date, sperando che una fosse nella città di residenza o, almeno, in una raggiungibile in meno di tre ore di aereo, poi si aspettava il giorno di apertura delle prevendite (anche un anno prima) e a quel punto si contavano i giorni che mancavano al concerto, e quando arrivava si aspettava che aprissero i cancelli, e di superare i controlli di sicurezza, e si aspettava che il sole tramontasse, che terminasse il sound check, che finissero la musica messa nell’attesa e il gruppo di spalla, che si spegnessero le luci e infine si aspettava la prima nota che dava inizio al concerto.
L’attesa è uno degli elementi intangibili che rendono i concerti esperienze impossibili da surrogare. Può durare anche anni: ne ho aspettati 13 per rivedere i Tool in Italia, 12 per i Vampire Weekend e sto ancora aspettando il ritorno dei Nirvana dopo che, nel 1994, io e il mio solito “amico di concerti” (è importante averne almeno uno) decidemmo di non andare a vederli a Roma, il 22 febbraio, perché avevo l’esame per la patente: «Aspettiamo il prossimo tour», le mie ultime parole famose. Quella di oggi è un’attesa diversa. Snervante. Torneranno i prati? I palazzetti? I club?
Ruggenti anni Venti
Lo chiedo alla mia ragazza, che si è scoperta appassionatissima di pandemia (non perde una notizia dai tempi di Wuhan, conosce personalmente ogni variante e legge il futuro nelle curve dei grafici, perciò a metà febbraio 2020 aveva già previsto un lockdown che a me sembrava fantascienza catastrofista) e, insomma, secondo lei il futuro è rosa, anzi dorato.
È del partito degli ottimisti raccontati, su queste pagine, dall’economista Alessio Terzi: studiosi, ricercatori, storici, accademici, economisti e giornalisti secondo cui andiamo incontro a una nuova versione dei dorati, ruggenti anni Venti.
Si ripeterà, sostengono, quel che è accaduto nello stesso periodo del secolo scorso: una sorta di rinculo, dopo il colpo della prima guerra mondiale e dell’influenza spagnola che, tra il 1919 e il 1929, generò un’impennata dei consumi e del mercato azionario, l’avvento di nuove tecnologie, la rivoluzione nei trasporti, il fiorire delle arti, la nascita delle avanguardie e, per restare in ambito musicale, l’esplosione del jazz, delle flapper e di tutte quelle cose luccicanti di cui ha scritto Francis Scott Fitzgerald. Insomma, secondo lei torneremo ad ammucchiarci ai concerti, spensierati come facevamo fino a quattordici mesi fa.
Esperimenti
Voglio crederci anch’io ma, intanto, constato l’impossibilità di replicare in altri modi l’esperienza. Ci hanno provato con lo streaming, poi con la realtà virtuale (il rapper Travis Scott ha fatto un concerto su Fortnite). Quindi sono passati all’analogico. Prima con le pedane: lo scorso agosto, a Newcastle, c’è stato il primo concerto col distanziamento sociale (contraddizione in termini) allineando sul prato cinquecento piccole pedane su cui si stava in non più di cinque, mentre i camerieri servivano da bere (altra contraddizione). Poi è stato il turno dei palloni gonfiabili di quei pazzissimi dei Flaming Lips: visto che per anni il cantante Wayne Coyne ha fatto “zorbing” (rotolando sulla folla all’interno di una bolla di plastica trasparente), il 22 gennaio, a Oklahoma City, hanno tenuto un concerto in cui musicisti e pubblico erano nelle bolle, cento in platea, ognuna contenente tre persone al massimo, un ventilatore, acqua e un cartello per le emergenze («devo fare la pipì» su un lato, «fa caldo» sull’altro).
A marzo ci sono andati vicino in Olanda (ma era un test scientifico su 1500 persone) e a Barcellona dove, il 27, al Palau Sant Jordi, hanno provato a organizzare un concerto come ai vecchi tempi ma con capienza ridotta da 17mila a 4.500 persone (colpo d’occhio desolante), iper ventilazione, tamponi antigenici all’ingresso (fila lunghissima) e mascherine obbligatorie (dopo un mese, due i contagi).
Per avere un’idea del futuro prossimo, bisogna guardare all’Inghilterra, più avanti con la vaccinazione, dove discutono di festival con passaporto vaccinale, ingressi a tempo, biglietti contactless, tracciamento dei contatti, servizi aggiuntivi per sicurezza, pulizia, “smaltimento delle persone” (e mascherine obbligatorie). Per il futuro remoto, invece, lo sguardo va a Wuhan, là dove tutto è cominciato: il primo maggio, per la prima volta, si sono radunate undicimila persone sotto un palco, felici, vicine e senza mascherine.
Insomma, così, a occhio, ci vorrà ancora tempo prima di poter tornare al passato. Per ora i festival e i grandi tour fermati dal Covid scaldano i motori dei loro impianti audio da decine di migliaia di watt ipotizzando un ritorno nel 2022.
I watt. Ecco, i concerti sono fatti anche di quelli. Di tanti, tanti watt. Così tanti da darti la sensazione di avere nello stomaco un piccolo Alien che bussa a ogni colpo della cassa. «Suoniamo a volume molto alto perché il pubblico possa sentire anche fisicamente la musica», ha detto Jimi Hendrix e infatti la componente fisica del suono, la potenza che solo quegli impianti sprigionano, è una delle cose che rendono i concerti non replicabili in altro modo.
Morti dal vivo
L’esperienza della musica dal vivo non si può materialmente surrogare perché, appunto, di materia è composta. Oltre che di watt e vibrazioni: di spazio, contatto, odori, temperatura. Soprattutto di carne e ossa. «La gente voleva vedere il corpo», ha detto Lou Reed.
Perché un concerto è fatto di quello: corpo, corpi. Il mistero della musica dal vivo è racchiuso nelle parole che la definiscono: “dal vivo”. Si chiama così perché necessita di corpi umani viventi, almeno sotto il palco. Sopra, invece, non è indispensabile: esiste la musica dal morto. Grazie alla tecnologia, il 16 agosto 1997, a Memphis, Elvis Presley tornò a cantare dal vivo per celebrare i vent’anni da morto. Ad assistere allo show, proiettato su un maxi schermo, più di diecimila persone (vive): la “cosa” ebbe così successo che il defunto The King si imbarcò in un tour mondiale che lo mantenne in vita finché gli toccò celebrare anche i trent’anni da morto. Oggi ai video si sono sostituiti gli ologrammi, grazie a cui sono stati riportati sulle scene Whitney Houston, Maria Callas, Roy Orbison, Billie Holiday, Frank Zappa. Simulacri, ma pur sempre corpi.
Virtuali, vivi o in cui di vivo è rimasto poco: nel 2016 ho assistito a quello che più che un concerto mi sembrò l’ostensione del corpo di Brian Wilson, allora settantaquattrenne e molto assente, che cantò a fatica tutto quel capolavoro che è Pet sounds, straziante dal punto di vista musicale, toccante da quello umano. Come continuano a dimostrare i Rolling Stones, non è questione di età: nel 2010 vidi Lee “Scratch” Perry, all’epoca anche lui settantaquattrenne, e quando salì sul palco sembrava che il suo corpo non ce l’avrebbe fatta a reggere nemmeno il peso di tutta la cianfrusaglia placcata oro che si portava addosso, figuriamoci cantare. E invece, c’era più vita in lui che in tanti giovani artisti che ho visto e subito dimenticato.
Effimeri e tribali
I concerti si dimenticano anche. Sono “esperienze effimere”, come ha scritto David Byrne nel suo Come funziona la musica: «Assistere di persona è uno degli elementi che rendono eccitante uno spettacolo: avviene davanti ai tuoi occhi e, nel giro di un paio d’ore, sarà finito. C’è qualcosa di speciale nell’esperienza comunitaria di assistere a un’esibizione dal vivo, nel condividere con altri la stessa cosa nello stesso spazio. Spesso il fatto stesso di riunire un gran numero di appassionati caratterizza l’esperienza almeno quanto ciò che si è andati a vedere. È un evento sociale, l’affermazione di una comunità ed è anche, in piccola parte, l’abbandonarsi del singolo individuo alla sensazione di appartenere a una tribù più vasta».
Effimeri e tribali. La fuggevolezza rende i concerti esperienze che superano la fisica classica per entrare nella fisica quantistica, dove il tempo è relativo. Ci sono concerti che non iniziano quando iniziano. E non finiscono quando finiscono. Vasco ha detto: «I miei concerti iniziano il giorno prima e non finiscono nemmeno il giorno dopo» e ha ragione. Anzi, i tempi possono essere molto più dilatati. Certi concerti continuano a suonarmi dentro anni dopo che l’eco dell’ultimo bis si è spenta e le luci bianchissime si sono accese come una sberla sulla realtà a cui tornare.
Continuano a suonarmi dentro anche se, nel frattempo, quel palazzetto è stato raso al suolo per costruire un residence di lusso e al posto di quel club ora c’è un supermercato. L’inizio dei concerti che non finiscono raramente coincide con la prima nota suonata sul palco. A volte cominciano con lo spegnersi delle luci, o nell’attimo di silenzio che segue l’interruzione improvvisa dello snervante sottofondo musicale che ha accompagnato per ore il lento affluire degli spettatori con i loro corpi.
Quando ero più determinato, quei concerti iniziavano ancora prima, con il cla-clank dei cancelli che si aprono dopo ore passate sull’asfalto sporco e bollente o ghiacciato, disidratato, affamato, nel naso il fetore sepolcrale delle solite scarpe da ginnastica marce di quello accanto che arriva da Crotone, Campobasso, Gorizia. Per noi, di Crotone, Campobasso, Gorizia, i concerti iniziano il giorno prima, col rumore delle porte di un treno o degli sportelli di un’auto che si chiudono davanti a un viaggio notturno, in ritardo e in compagnia di un panino con prosciutto e formaggio avvolto nella carta stagnola.
Ci sono concerti che iniziano col suono delle sirene o col botto sordo di un manganello che si abbatte sulla scapola di quello accanto, che sta scappando, come me. Per fortuna i concerti che non iniziano quando iniziano, e non finiscono quando finiscono, continuano a suonarmi dentro anche ora che i concerti non ci sono, e c’è solo silenzio, ed è tutto coperto dalla coltre della pandemia. Che prima o poi si scioglierà. E torneranno i prati.
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