- Deve esserci qualcosa che non va, ormai, nel mio gusto d’italiano trasvolato all’estero. A differenza dei miei pari con cui ne ho parlato, che l’hanno detestato o ne hanno riso a crepapelle, io sono rimasto assolutamente incantato da quel carrozzone rutilante di arie d’opera e hit al sintetizzatore anni Ottanta intitolato House of Gucci.
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Sono i maschi però, prevedibilmente, ad avermi fatto riflettere, fasciati nelle loro sete e cotoni da crepuscolo della guerra fredda e ancora distanti dalla rivoluzione del loro genere operata da Gucci negli ultimi anni.
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Deve esserci qualcosa che non va, ormai, nel mio gusto d’italiano trasvolato all’estero. A differenza dei miei pari con cui ne ho parlato, che l’hanno detestato o ne hanno riso a crepapelle, io sono rimasto assolutamente incantato, entusiasmato da quel carrozzone rutilante di arie d’opera e hit al sintetizzatore anni Ottanta che Ridley Scott, facendo il verso ai ragazzini hip hop e alle drag queen icone di stile, ha intitolato House of Gucci; il film che mi pare consacrare nell’eternità l’assoluto carisma cinematografico di Lady Gaga, leader estetica della mia generazione Y.
Sono i maschi però, prevedibilmente, ad avermi fatto riflettere, fasciati nelle loro sete e cotoni da crepuscolo della guerra fredda e ancora distanti, nella più o meno accurata finzione storico-iconografica della pellicola, dalla rivoluzione del loro genere operata da Gucci negli ultimi, brillantissimi anni della sua ricerca sulla fluidità.
Il foulard
Quell’Italia inesistente, quegli accenti artificiali tutti diversi, quell’insistito grottesco barocco senza ironia mi sono parsi ben più italiani di qualsiasi pelosa professione di autenticità italiana dei nostri giorni: non c’è nulla di più italiano, mi pare, dell’ostentazione posticcia, performativa, dell’italianità.
D’altronde l’unico che sembra italiano per davvero in quel film, il divino Adam Driver che credibilmente altera il suo inglese con le opportune vocali e consonanti liquide, non ha neanche una goccia d’italico sangue, non parla italiano, e interpreta un’icona dell’italianità più a suo agio in Svizzera che non nelle toscane e nelle lombardie rispettivamente alla radice della sua famiglia e del suo business.
L’altro rampollo Gucci, affidato al più ridicolo Jared Leto di sempre, è invece una caricatura sepolta in quintali di imbottiture e bronzei ceroni: il contrario della nonchalance del suo vincente rivale morto ammazzato; un baffuto Super Mario. Ma è a lui, reietto senza gusto della dinastia destinata a dissolversi con la sua generazione, che tocca in sorte la scena madre di tutto il film: quella in cui dimostra di essere il maschio edipico, fallico, bestiale della tribù, sebbene fino a quel punto sembrasse un effeminato cicisbeo isterico e sottomesso.
In quella scena, nella tenuta maremmana dove pascolano le vacche all’origine della pelletteria Gucci, il Leto panzone è messo di fronte all’evidenza della sua incompatibilità col marchio che vorrebbe ereditare per linea paterna. Lo zio, anima creativa di quell’impero, gliene illustra l’eleganza in un unico correlativo oggettivo emblematico; un foulard di finissima fattura, disegnato da lui anni addietro, che ammutolisce d’un colpo, nella sua perfetta composizione cromatica e grafica, le porcherie del portfolio del giovane squadernato sul tavolo.
Egli dunque, sopraffatto dalla propria mediocrità, getta il foulard in terra e, come un cane, ci piscia sopra.
Brani di stile
Il foulard, si sa, è soprattutto una cosa da femmina, come la cravatta è soprattutto una cosa da maschi. Ma tra questi due lacerti assoluti di stoffa a colori, capaci di sintetizzare un’identità di stile (un brand, una linea estetica, un’epoca) si estende uno spettro di oggetti analoghi per cui a volte è persino difficile formulare un nome specifico.
Si tratta, direi, di fazzoletti o piccole stole: brani di stoffa pregiata che non hanno quasi altro significato se non quello di riverberare una tinta, confermare un motivo, aggiungere una fantasia ad altrimenti troppo semplici o troppo uniformi sistemi di vestiti.
Qualche settimana fa, in questo inventario di cose da maschi, avevo indugiato sull’accessorio maschile che mi è forse più caro: la cravatta appunto, terra liminale nella geografia del maschile in cui possono esplodere disegni e toni altrove banditi; finestra sull’anima di chi la indossa.
Ho raccontato di come ho ereditato da mio nonno una collezione di cravatte che ho poi arricchito compulsando i negozi dell’usato, componendo un ritratto di me composto dai reperti di nonni di altri i cui guardaroba sono andati venduti invece di raggiungere i loro discendenti.
La scena del foulard in House of Gucci mi ha ricordato però che nell’armadio di mio padre, invece, di cravatte ne ho sempre viste poche: quelle necessarie a una normale vita professionale e niente più. E ciononostante, la funzione che avevo attribuito alla sola cravatta si è sempre espressa, addosso a lui, nelle cupe luminescenze di una sciarpa di seta da moto, nei fazzoletti da taschino delle occasioni importanti e, soprattutto, in quelli di buona fattura da portare con sé per eventuali raffreddori, per tergersi la fronte come teatralmente faceva all’apice della sua fama mondiale Pavarotti, o per offrire conforto a chi si mette a piangere, come in un romanzo d’amore ottocentesco.
Il concetto, il meccanismo, è in fondo lo stesso, ma semplificato: si tratta di quadrati o rettangoli animati da geometrie estranee alla moda maschile tradizionale, sospensioni della spiccia semplicità che ci si aspetta dagli uomini, scorci di morbido, virile estro.
Boy-scout, cowboy, banditi e pirati
Mi pare incantevole che, fuori da tasche e taschini di completo, i tipi d’uomo che più sono caratterizzati da forme maschili del foulard siano quelli che formano il ventaglio dell’avventuroso, dalla gita fuori porta all’arrembaggio nel mar dei Sargassi.
Il boy-scout, col suo lungo fazzoletto intorno al collo di camicia sportiva sprovvisto di cravatta, è l’estremo più rassicurante di questa galleria, seguito a ruota dal cowboy, col suo brano di stoffa magari rossa, magari triangolare, allacciato stretto sul collo slacciato (a proteggerlo dalla brezza delle praterie?).
Nei cartoni, nei western, a distinguere i cowboy dai banditi è spesso solo la posizione di quel fazzoletto, che i cattivi portano sul viso per anonimizzarsi agli occhi della legge e dei cacciatori di taglie – un po’ come, a inizio pandemia, certi ragazzi si avvolgevano una bandana sopra al naso pensando di proteggersi dal virus.
Il fazzoletto annodato in faccia è anche l’iconografia-chiave dell’attivista irriducibile (si pensi ai disegni di lotta di Zerocalcare), dell’idealista che va oltre alla chiacchiere da salotto, distinguibile dal banale fascio da stadio perché quest’ultimo, per non essere riconosciuto, copre il volto con la sciarpa di lana della squadra del cuore. Ma sono i pirati, i più gender-bending e fantasiosi degli (anti)eroi da romanzo adolescenziale o da film di cassetta, a sfoggiare foulard davvero spregiudicati.
Jack Sparrow a dire il vero non ne mostra, se non vogliamo considerare la striscia di stoffa vinaccia che porta tra i capelli sotto al cappello, ma il suo interprete Johnny Depp è invece spesso immortalato con grandi pezze di cotone avvolte fin sotto il mento, forse più da punk che da bucaniere.
Capitan Uncino, disegnato da Disney o interpretato da Dustin Hoffmann nel film di Steven Spielberg che porta il suo nome, è pieno di fazzoletti, addirittura di merletti: al collo, nella manica, nella tasca.
Arlecchino
Quando vedo nuvolette azzurre emergere da una tasca interna per mondare un paio d’occhiali appannati, o lingue triangolari sgargianti far capolino dalla fessura sul cuore di una giacca gessata, o fiocchi, bavagli, code, collari e sbuffi di stoffa leggera abbracciare colli di rivoluzionari, cantautori country, motociclisti, campeggiatori, assistenti di volo e masnadieri, mi viene da pensare alla leggenda di Arlecchino.
Non a quella vera e filologica, da commedia dell’arte, che ci tramandano le fonti della cultura popolare, ma a quella strappacuore che chi ha la mia età ha senz’altro sentito a scuola, da qualche maestra, durante queste settimane di carnevale.
Arlecchino, recita tale mito educativo e vagamente queer, era l’unico bambino senza un costume, e tutti gli altri hanno dunque deciso di ritagliare un pezzetto dal loro e cucirli tutti insieme in un variopinto abito per includere l’amico nella festa.
In una fantasia inversa immagino abiti interi da cui provengono, tagliati e distribuiti tra i maschi, i virili foulard che ingentiliscono i profili più o meno pirateschi degli uomini che li portano. Mi pare che Gucci, dopo gli eventi rocamboleschi del film di Scott, sia andata proprio in quella direzione sotto la guida di Alessandro Michele (così influente anche nei bellissimi abiti dei giovani uomini dell’appena conclusosi festival di Sanremo): dare ai maschi non un guizzante frammento, un accento, un fazzoletto di gioia, ma tutta l’elegante gloria tessile e cromatica che, un tempo, si riservava alla sola femminilità.
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