Sotto l’albero stanno bene tanto la “influencer” Patricia Cornwell quanto la spy story romantica di Robert Harris. Ma anche chi si occupa di storie vere: come Taddeo (sul più grande serial killer italiano) o Gianluca Herold
Ormai, nel mio gioco dell’oca di lettore, quando mi imbattevo in Patricia Cornwell, tornavo indietro di molte caselle. Eppure è stata una delle maggiori influencer degli ultimi trent’anni. Tutto il filone crime che imperversa nelle librerie e in televisione è in gran parte merito (demerito?) suo e, ad esempio, la criminologa nostrana Bruzzone deve essersi ispirata per il suo look aggressivo alla bestsellerista americana (mettete due loro foto a confronto e vi sarà evidente: hanno un’aria da museo delle cere).
Senza Cornwell non ci sarebbero state trasmissioni tv come Quarto grado di Gianluigi Nuzzi con le sue vestali e l’impareggiabile generale Garofano.
Dopo gli sconvolgenti romanzi iniziali (a partire da Post mortem, clamoroso libro d’esordio nel 1990), le storie dell’anatomopatologa Kay Scarpetta, frontwoman della serie, sono diventate sempre più affastellate con personaggi che si parlavano addosso per pagine e pagine come partecipanti a una seduta di alcolisti anonimi.
Il nuovo thriller
Nel nuovo romanzo, Identità sconosciuta (Mondadori), c’è sempre l’agente Marino, spalla della dottoressa, che lotta contro la sua vocazione anti-salutista ruminando, da ex tabagista, chewing-gum al tè del Canada e quasi prende una cotta per Janet, un algoritmo prodotto dall’intelligenza artificiale. Il libro propone altre trappole erotiche cibernetiche ed è, come d’abitudine, tecnologicamente aggiornatissimo. Se fossero automobili i romanzi della Cornwell sarebbero SUV superaccessoriati.
Nel cast c’è ancora, purtroppo, Lucy, la nipote della dottoressa, che continua a elaborare il lutto per Carrie (nome demonizzato per sempre da Stephen King), la sua perfida e terribile ex amante, e viaggia ormai soltanto sulla corsia preferenziale del delirio complottista. Sostiene, per esempio, che i dischi volanti degli anni Cinquanta li fabbricavano gli americani e, successivamente, i russi e poi i cinesi. E, altro esempio, pensa che a governare il mondo sia una trinità malefica composta da Casa Bianca, Numero 10 di Downing Street e Vaticano.
Tutto uguale dunque? No. Stavolta Kay Scarpetta indaga su un suo vecchio amore, che era addirittura un Nobel della fisica, morto in circostanze oscure. La sua è un’inchiesta romantica, con momenti proustiani: «un campanello trilla allegro al mio ingresso e mi ritrovo in un vecchio market che mi rammenta quello di mio padre quando ero bambina a Miami… Ci sono scaffali con caramelle e chewing-gum, piccoli frigoriferi con gelati e una pala al soffitto che ronza». La dottoressa Scarpetta si aggira a caccia di indizi in una sorta di Disneyland in disuso (metafora della Terra desolata in cui viviamo?). E riflette su una verità incontrovertibile: «nessuno è immune agli errori del cuore».
Eredi (e non) di Capote
In ambito crime la parte del leone la fanno tre mastodontici volumi scritti da Roberto Taddeo e intitolati MDF. La storia del Mostro di Firenze (edizioni Mimesis). Summa che definirei esaustiva, se non suonasse temerario usare aggettivi del genere per la storia praticamente infinita del più grande serial killer italiano, ormai apparentabile (un cugino di primo grado?) al mitico Jack lo Squartatore.
Il racconto di Taddeo riesce nella miracolosa impresa di rendere conto di ogni dettaglio, di ogni pista, di ogni ipotesi, senza mai perdere il filo del discorso, il ritmo narrativo, l’aderenza fattuale. L’autore, avvocato e fotografo, ha compreso bene la lezione di Truman Capote in A sangue freddo che poi è la stessa del Martini cocktail: mescolare non shakerare. Lezione che Gianluca Herold, autore di Il più bel trucco del diavolo (Rizzoli), storia romanzata del caso Bestie di Satana, ha contemporaneamente recepito e non recepito.
L’applicazione di Herold alla fosca vicenda è scrupolosa, rispettosa e umile. Ha capito che se proprio si vuole romanzare fatti del genere bisogna procedere con i piedi di piombo, somministrare dosi omeopatiche, non ci sono da fare passi avanti bensì qualcuno indietro, non bisogna aggiungere ma levare. Quando nella realtà delle carte processuali e dei report investigativi appare addirittura un pitone sospettato di aver mangiato carne umana e perciò sezionato alla ricerca di eventuali tracce del pasto consumato, perfino Kafka alzerebbe le mani e la penna e chiederebbe di essere messo in congedo illimitato o, almeno, di poter disporre di un congruo numero di anni sabbatici.
Per raccontare la banda assassina di fricchettoni, protagonista della vicenda, Herold accenna al massimo qualche balletto alla Tondelli di Altri libertini e ci sta, come direbbero i fricchettoni di adesso usando uno dei loro più ricorrenti tic linguistici. Quello che non ci sta in Il più bel trucco del diavolo è lo sforzo pur encomiabile di mettere in bella copia l’orrore.
C’è un passaggio quasi subliminale del libro in cui si ironizza sulla lingua (burocratica, ingessata, involuta) dei verbali di polizia e dei tribunali. Lo fece, classicamente era il 1965, Italo Calvino nel celebre saggio sul brigadierese. Accadeva nel resoconto calviniano che un uomo rilasciava a un brigadiere la seguente dichiarazione: «Stamattina presto andavo in cantina ad accendere la stufa e ho trovato tutti quei fiaschi di vino dietro la cassa del carbone. Ne ho preso uno per bermelo a cena. Non ne sapevo niente che la bottiglieria di sopra era stata scassinata».
E il brigadiere così trascrive a macchina le parole dell’uomo: «Il sottoscritto, essendosi recato nelle prime ore antimeridiane nei locali dello scantinato per eseguire l’avviamento dell’impianto termico, dichiara d’essere casualmente incorso nel rinvenimento di un quantitativo di prodotti vinicoli, situati in posizione retrostante al recipiente adibito al contenimento del combustibile, e di aver effettuato l’asportazione di uno dei detti articoli nell’intento di consumarlo durante il pasto pomeridiano, non essendo a conoscenza dell’avvenuta effrazione dell’esercizio soprastante».
Ovviamente Calvino aveva ragione di ironizzare sullo stile del brigadiere, eppure tanti anni dopo (e tanta plastificazione e deodorantizzazione della lingua italiana nel frattempo avvenute) viene il dubbio che un pizzico di brigadierese, qualche scampolo di cursus da verbale di polizia, faccia bene al resoconto di crimini e misfatti producendo lo straniamento necessario a guardare dritto negli occhi Medusa.
Troppo presenzialismo
Ma queste sono mie elucubrazioni, ricerca di peli nell’uovo, Herold va assolto. Non va assolta, invece, Alessandra Carati, autrice di Rosy (Mondadori), che si dedica alla strage di Erba occupando la scena in prima persona come se fosse la reincarnazione di Truman Capote e fatalmente, come Icaro, si brucia le ali per eccesso di presenzialismo.
La vicenda di Rosa e Olindo, gli assassini di Erba, ha ispirato negli anni molti libri, molte ricostruzioni giornalistiche, tutti a vario titolo vaneggianti e deliranti. Gli scriventi hanno shakerato, non mescolato, dimenticando che, di fronte a storie così efferate, il narratore deve fare tappezzeria come nelle feste da ballo di una volta e mai, se non si chiama e si firma Truman, mettersi al centro della pista da ballo. Come avrebbe raccontato Capote la storia di Rosa e Olindo? Sono pronto a scommettere un milione di dollari che l’avrebbe raccontata come una grande storia d’amore, una delle più grandi degli anni Duemila. E avrebbe rilevato che quella grande storia d’amore è finita per colpa di Rosa e non di Olindo, il quale continua ad amarla come un cavaliere antico, come amavano i cavalieri di Ariosto.
Anche sul Mostro di Firenze sono stati scritti molti brutti libri e non è facile assegnare la palma del peggiore. Personalmente propendo per Nessuno di Eugenio Nocciolini e Edoardo Orlandi (Giunti editore) che portano stimmate pesanti: sono allievi di Stefano Massini e di essere autori di podcast (questi ultimi che sempre di più sembrano la versione digitale della Corrida, il famigerato programma già di Corrado Mantoni e ora di Amadeus, il cui sottotitolo diceva tutto: “Dilettanti allo sbaraglio”, formula nella quale è probabile si possa riassumere lo spirito dell’epoca corrente).
Carteggi British
Se un uomo di governo italiano sulla sessantina si innamora di una donna sulla quarantina finisce fatalmente in farsa. Non è una legge dello stato ma quasi. Invece se un primo ministro inglese sulla sessantina si innamora di una rampolla dell’aristocrazia ancora nemmeno trentenne l’esito sarà alquanto diverso. Herbert Asquith, inquilino del 10 di Downing Street all’inizio della Grande Guerra, scrisse 560 lettere d’amore alla molto più giovane di lui Venetia Stanley (bellissimo nome per una donna da amare).
Erano lettere scritte a mano su fogli di carta ma somigliano per immediatezza e vivacità ai messaggini contemporanei. Un carteggio che non sfigurerebbe nella famiglia dei grandi romanzi epistolari europei (Liaison dangereuses, Ultime lettere di Jacopo Ortis, I dolori del giovane Wether). Queste lettere Asquith, politico saggio e rispettato, le scriveva in pieno consiglio di guerra mentre si prendevano decisioni al cospetto di grandi della Storia come Winston Churchill su questioni di vita e di morte (centinaia di migliaia di caduti solo dalla parte inglese). Un sedicenne in preda a una cotta non avrebbe saputo fare meglio.
Certo per il folle comportamento di Asquith si potrebbero invocare le attenuanti della virulenza dell’amore senile soprattutto quando l’oggetto del desiderio è una ragazza libera e bella (come diceva la pubblicità anni Settanta di uno shampoo), di ottima famiglia, imparentata con il filosofo Bertrand Russell. E si potrebbero ancora invocare le attenuanti di avere una moglie (una lady di gran classe e notevole spirito) che, dopo aver rischiato la vita a causa di una gravidanza, piazzò in camera da letto come soprammobile un vero teschio, fantasioso e macabro modo di intimare un no trespassing coniugale.
Ma tutto ciò non basta a spiegare l’imprudenza che sfociò ben oltre limite dell’impudenza di Asquith. Le sue lettere a Venetia contenevano infatti come affettuosi cadeau i dispacci top secret (veline e telegrammi riservatissimi inviati dal Foreign Office il primo ministro). E sempre quelle comunicazioni super confidenziali venivano mostrate a Venetia durante gli incontri tra i due amanti che avevano luogo sui sedili posteriori della Napier Type 23, 6 cilindri e 45 HP, la limousine appannaggio del premier adibita ad alcova alla stregua di un vagone letto dell’Orient Express.
Dopo aver esibito i suoi trofei da statista alla sua bella, Asquith accartocciava i fogli e, incurante dei rischi che potevano derivarne se finiti in mani nemiche e infischiandosene delle buone maniere, li gettava fuori dal finestrino della macchina.
Amore e spionaggio
Robert Harris, il maestro di Fatherland e di Enigma, racconta questa incredibile e vera storia di amore e spionaggio, con una trama tra Jane Austen e Ian Fleming, nel romanzo Precipice (Mondadori). Il racconto è anche uno spaccato d’epoca e una prova generale di un futuro grande romanzo con Churchill protagonista che, lo sospetto da anni, è nelle corde di Harris.
In Precipice sir Winston appare a più riprese. In una occasione pronuncia una delle sue mirabili orazioni intanto che Asquith forse scriveva l’ennesima lettera a Venetia citandole magari versi della loro poesia preferita: il sonetto 44 di Shakespeare, quello sulla lontananza della persona amata.
In quella occasione Churchill indirizzò una supplica appassionata e feroce ad Asquit: «Vi imploro, primo ministro, di non pensare più al mio futuro in termini convenzionali, ma di sollevarmi dagli incarichi amministrativi dell’Ammiragliato e di concedermi l’onore di un comando militare… Ho conosciuto il sapore del sangue, primo ministro, e come la tigre ne sono assetato! Temo di avervi scioccato ma non mi scuso per questo, perché il mio è lo spirito che ci farà vincere la guerra».
Ho chiesto ad Harris se Churchill è un personaggio da Shakespeare o da G.B. Shaw. Mi ha guardato con l’aria di chi si trova davanti a un bivio difficile. Poi ha risposto: «Da Shaw». E allora ho capito quanto formidabile potrebbe essere un suo romanzo su Churchill.
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