- La città è cava, la gente c’è. Basta riempire l’altro 50 per cento che rimane, l’incavo, mettere energia lì dentro e si riattiva tutto, secoli e speranza. Qualcuno ci dovrebbe riflettere.
- Un enorme incendio a Centocelle che riempie di fumo nero follemente spettacolare e densissimo mezza città (vuota, come la canzone di Mina, è metà luglio).
- A sorpresa, nonostante un impianto finalmente all’altezza e un buonissimo livello tecnico della band (la cui vera bellezza nascosta è il batterista), il concerto dei Måneskin è una ode alla normalità.
FOTO
A model wears a creation as part of the Valentino women's Fall-Winter Haute Couture 2022-23 collection, unveiled in Rome's Spanish Steps, Friday, July 8, 2022. (AP Photo/Gregorio Borgia)
La città è cava, la gente c’è. Basta riempire l’altro 50 per cento che rimane, l’incavo, mettere energia lì dentro e si riattiva tutto, secoli e speranza. Qualcuno ci dovrebbe riflettere.
Roma, nonostante tutto, è cava. È vuota. È una colonna con un capitello abbandonato in un angolo qualunque, con un gatto che spunta (proprio come in quei video arguti ma forse non compresi abbastanza di Renato Leotta, l’anno scorso al Maxxi).
È piazza Testaccio vuota con poca gente nelle grandi e comode panchine, per dire. È una pensilina dell’autobus dove gente aspetta per ore. È l’attesa.
Molte cose clamorose sono accadute, e il corpo – non solo umano – le tramanda. Molte devono ancora accadere. Roma è sacra, nonostante tutto. Attende miracoli e prodigi, con pazienza. A volte accadono tutti insieme.
Il weekend degli opposti
È successo questo weekend, di colpo. Dentro l’apparente pieno dell’overturismo – che in realtà fa simpatia e pure riattiva folklore con assurde punte di autenticità residue – si chiude il centro come niente fosse, ed entriamo con van oscurati in piazza di Spagna. Finalmente nuda, dopo secoli.
Mano a mano, si riempie di apparizioni tra le sedie piazzate per le/gli ospiti. Quasi tutti rosa fluo, con super platform ai piedi, da tutti i continenti. Fasciate, non tutte di genere biologico né genere femminile per fortuna.
Sfilano corpi di celluloide (ancora? si), maschere della canzone e della tv popolare, eccentricità da mondi paralleli, reali della moda che vengono a portare omaggio (la dinastia matriarcale Fendi).
La piazza si riempie di aristocrazia anche della stampa settoriale (Anna Wintour, il morbidone Enninful di Vogue Uk, la leggendaria Cathy Horin del New York Times). “Fantasmi a Roma”, insomma. Ovviamente è l’ora migliore, la fine del giorno. L’incredibile intonaco romano diventa oro.
Spunta Labyrinth a mezza scala, e lui inizia a cantare dal nulla, senza basi. È salita la brezza, altro miracolo. Iniziano a scendere dalle scale vere e proprie creature. Uccelli dal paradiso con piumaggi di vario tipo (anche misteriosissimi, come pennuti con la raggiera a coprire tutto il viso, lasciando solo un buco per respirare tutto).
Alla palette totale del rosa shocking si aggiungono gli altri pantoni fluorescenti, e poi i nastri, i colori carne, i contrasti chic assai. Tutto leggerissimo. Si riparte dall’inizio (“The Beginning” s’intitola il tutto).
Si ritorna a casa – cambiati – dopo averla lasciata per un lungo viaggio. L’idea di fare un’“alta moda maschile” da due stagioni – solo apparentemente condivisa da altri, ma veramente e con potenza solo da Balenciaga – è fantastica.
Sfilano uomini-fiori, uomini che diventano dive di Hollywood, forze tranquille in canottiera e pantaloni comodi, quasi sempre modelli africani ed afro-discendenti (del resto qui di casa, in mille derivazioni anche imperiali/ste). Tutto avviene con lentezza, e grande tempo a disposizione. Del resto. i romani non fanno niente, giusto?
(Il deus ex machina della maison, Pier Paolo Piccioli, alla fine scende dai gradoni con 50 sarte e sarti del reparto couture, il più massacrante quanto a ritmi di lavoro).
Piano piano, si forma la composizione totale sulla scalinata e tutto diventa ora. Esiste un passato enorme, esiste per fortuna un futuro che non è quello di vetro cemento, alberetti appesi e fintech della (neo)borghesia lombarda sempre in affanno.
Esiste l’adesso. Lo stesso che si palesa alla festa successiva nella parte poco frequentata delle Terme di Caracalla, quella dietro il palco degli spettacoli estivi per intenderci, con la passerella per vedere mosaici straordinari specie se illuminati di notte.
Un altro posto vuoto, e per una sera riempito dalle stesse figure e ospiti presenti alla sfilata ma ancora più fluorescenti (naturalmente), uno strano ballo a corte molto rilassato, che non riempie le rovine ma le inietta di vita, specie quando il dj set ibizenco, con un dancefloor messo in fondo all’infinita navata naturale, imbrocca capolavori di ballate afro-pop con fantastiche sottili strutture ritmiche (è appena uscito l’album di Burna Boy, ma questa è roba più buona, Davido e altri).
A forza di aumentare la bellezza africana tra i modelli, scatta la meraviglia: le antiche pietre accolgono per mezz’ora i quartieri di Dakar o Accra, l’eleganza della scalinata diventa una strada ovunque nel mondo vero, quella del divertimento dei micro-capannelli dove fare gli sbruffoni ballando a turno, le ragazze tirano fuori movimenti che sono linguaggi che non è facilissimo decifrare, ma velocissimi e digitali.
Un colpo di genio, o un evento dato dagli elementi in campo, non importa. Ovviamente tutto svanisce, verso una certa.
Welcome to Favelas
Il giorno dopo un altro luogo leggendario della città, il Circo Massimo (che pure si riempie spesso per accadimenti vari, specie estivi, ma che di fatto è uno slargo immenso semi-verde che vediamo costantemente in attesa di qualcosa, quando lo si incontra nei giorni normali, troppo grande per farci qualcosa di normale) si sta riempendo dalle due del pomeriggio per il concerto dei Måneskin, altra grande messa cantata attesa da anni.
Viene salutato in modo inaspettato da un evento di fantascienza alla “Welcome to Favelas”: un enorme incendio a Centocelle che riempie di fumo nero follemente spettacolare e densissimo mezza città (vuota, come la canzone di Mina, è metà luglio).
Una vergogna, ovviamente, ma anche un fenomeno incredibile quasi alla Dino Buzzati che avvolge il silenzio e insieme lo rompe di sirene. Alle otto di sera, con tutta la Storia che si vede e si sente da quelle parti – persino il tetto della Sinagoga – il Circo è tutto pieno.
Saranno 70.000 persone, dicono i numeri dei biglietti, ma pure di più, moltissimi bambinetti come si diceva una volta. Dicono che i ragazzi della band si caghino sotto, lo dicono i loro compagni di classe dentro il “pit” degli amici sotto il palco, molto simpatici.
Quando il concerto attacca e di botto, Damiano ha una cappa impunturata disegnata per lui da Gucci (l’altra “chiesa” fondamentale della città diffusa in tutto il mondo), ancora una volta un paramento. E il rito inizia, e i Måneskin sono in piena confidenza.
A sorpresa, nonostante un impianto finalmente all’altezza e un buonissimo livello tecnico della band (la cui vera bellezza nascosta è il batterista), è una ode alla normalità: la normalità di aver suonato tanto in cameretta, la normalità di essersi ritrovati con una ottima voce da allenare e averla resa libera di fare, la normalità di amare un genere musicale molto frequentato e molto rimosso finora perché invece schiacciato da una uniformità di suoni e ritmi dominanti da troppo tempo. Tutto qui.
Tornando via prima della fine, passando i lati, c’era quello che una volta si chiamava “il popolo” tranquillamente bisbocciante di fronte alle transenne, nei bar e nelle trattorie, coi bambini anche in carrozzella. Una festa di paese.
La città è cava, la gente c’è. Basta riempire l’altro 50 per cento che rimane, l’incavo, mettere energia lì dentro e si riattiva tutto, secoli e speranza. Qualcuno ci dovrebbe riflettere.
© Riproduzione riservata