- Ho tradotto il primo romanzo di Ian McEwan 36 anni fa, nel 1987. Non potevo capacitarmi della fortuna che mi era toccata. Non mi capacito neppure adesso. Avevo 32 anni, ero incinta, e il ricordo della mia gravidanza è indissolubilmente legato a quel libro.
- E per finire, posso ricordare di aver tradotto Macchine come me nel silenzio bianco del lockdown, mentre Ian McEwan, nel suo lockdown, dava inizio alla stesura di Lezioni.
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Ancora una volta vorrei farmi guidare dalle parole di Yves Bonnefoy sulla traduzione:
«E forse, dopo tutto, è così che bisogna tradurre, con l’oscura coscienza cioè che in ogni traduzione non si è che sé stessi, nel nostro proprio giorno, e che questa transitorietà avvolge tuttavia una testimonianza».
Ho tradotto il primo romanzo di Ian McEwan 36 anni fa, nel 1987. Non potevo capacitarmi della fortuna che mi era toccata. Non mi capacito neppure adesso. Avevo 32 anni, ero incinta, e il ricordo della mia gravidanza è indissolubilmente legato a quel libro. Ronald Reagan era presidente degli Stati Uniti, Ciriaco De Mita, presidente del Consiglio, il mondo lottava con l’Aids e con gli oscurantismi che ne favorivano la diffusione, in primavera moriva Primo Levi. Bambini nel tempo uscì in Italia nel 1988.
Ricordo il luogo e l’ora in cui lessi le pagine del romanzo che avevo avuto dalla casa editrice per la prova di traduzione. Traducevo allora utilizzando la macchina da scrivere che presto (nel senso di qualche romanzo dopo, intendiamoci) fu sostituita dal mio primo computer. Non ricordo con precisione quando sia iniziata la mia regressione psico-tecnologica.
Quello che so è che da un certo libro in poi sono tornata alla carta e alla penna e non sono più riuscita a saltarne fuori. Forse la cosa è partita per vezzo, forse per la comodità di avere sempre con me il necessario, un quaderno, una penna in tutte le borse, in tutti gli zaini.
Poi, come capita a molte abitudini innocenti al loro insediarsi nella nostra routine, è diventata una robusta dipendenza. Traduco a mano. Anche se l’espressione è assurda; come se esistesse la possibilità di tradurre a macchina. (Ma anche di questo, trentacinque anni dopo, non posso più essere tanto sicura) Diciamo che traduco su quaderni i romanzi che traduco.
Il tempo scandito dai libri
Dopo Bambini nel tempo, di Ian McEwan, ho tradotto:
Lettera a Berlino 1990
Cani neri 1993
L’inventore di sogni 1994
L’amore fatale 1997
Amsterdam 1998
Espiazione 2001
Sabato 2005
Chesil Beach 2007
Solar 2010
La ballata di Adam Henry 2014
Nel guscio 2017
Macchine come me 2020
Lo scarafaggio 2021
Lezioni 2023.
Tutti per Einaudi.
Scorro i titoli ogni volta con fiero stupore, ma scorro anche le date, il tempo passato sul tempo in cui traducevo McEwan. Ho tradotto Lettera a Berlino l’anno in cui Mandela usciva dal carcere di Robben Island, la Thatcher rassegnava le dimissioni, Francesco Cossiga era presidente della Repubblica; ho tradotto Cani Neri mentre Bill Clinton si insediava alla Casa Bianca, la Dc si scioglieva e Toni Morrison vinceva il Nobel per la letteratura; ho tradotto L’inventore di sogni l’anno della discesa in campo di Silvio Berlusconi, della morte di Kurt Cobain e della vittoria di Nelson Mandela; ho tradotto L’amore fatale l’anno della pecora Dolly e del primo governo di Tony Blair.
Posso continuare, ricordando che l’anno di Espiazione fu anche quello della tragedia delle Torri Gemelle; l’anno di Sabato fu quello dell’uragano Katrina che restituì New Orleans alla palude; l’anno di Chesil Beach fu quello della candidatura di Obama alla Casa Bianca, e che l’anno della Ballata di Adam Henry si concluse con la strage di bambini a Peshawar.
E per finire, posso ricordare di aver tradotto Macchine come me nel silenzio bianco del lockdown, mentre Ian McEwan, nel suo lockdown, dava inizio alla stesura di Lezioni. Intanto, ovviamente, mi succedeva la vita. Il tempo passava, cambiando il mio modo di fare quasi ogni cosa, per esempio, di leggere e di tradurre.
Mai sola
Ma non proprio tutto è cambiato. La prerogativa che subito mi viene in mente quando penso al tradurre McEwan è quella di aver avuto ogni volta bisogno di qualcuno accanto. Se tradurre è un mestiere della solitudine, con Ian McEwan sono stata costretta a cercare aiuto non solo nei libri. Ho dovuto trovare persone che conoscessero la lingua dinamica delle zone di riferimento che i suoi romanzi di volta in volta attraversavano. Per lingua dinamica non intendo il gergo manualistico, né il lessico specifico, intendo quel movimento di competenze incrociate che fa succedere le cose nella lingua di un certo mondo.
Il buio micidiale in cui mi muovevo traducendo certe pagine di Solar mi ha procurato la gioia di lavorare faccia a faccia con il fisico Anna Perona, che prima leggeva la mia traduzione “cieca” e poi mi spiegava. Non tollerava di limitarsi a correggere, Anna Perona voleva spiegarmi la fisica. Voleva perfino indicarmi dove il romanzo comico di McEwan avrebbe fatto ridere un fisico, quando la variante della turbina eolica di Darrieus entrava in un dialogo e se la doveva vedere con le leggi della fisica ma anche con quelle della credibilità narrativa.
L’elenco dei miei consulenti è lungo e assai differenziato: da un cognato fresco di diploma da sommelier che mi suggeriva aggettivi per i vini mentre lavoravo a Nel guscio, al musicologo Giorgio Pestelli per le lunghe pagine musicali di Amsterdam ; da Alberto Mittone, consulente prezioso per il delicato lavoro di verosimiglianza legale ne La Ballata di Adam Henry, al neurochirurgo Marco Fontanella che corresse allibito i miei tentativi di intendere la sindrome de De Clérambault in L’amore fatale; all’amico Massimo Prestifilippo con cui ho giocato a tavolino la tesissima partita di squash intorno alla pagina cento di Sabato. Anche qui non si trattava di reperire un manuale di squash, ma di giocare con le parole di chi pratica questo sport.
Poi è arrivato Lezioni. Il romanzo più lungo, il romanzo di una vita. Quello in cui la Storia diventa «colonna sonora della storia» come racconta McEwan all’amico Alberto Manguel nella bella conversazione pubblicata recentemente su Robinson.
La vita di Roland Baines attraversa tutta la seconda metà del secolo breve e i primi vent’anni del nuovo millennio, e la mia traduzione pedina il suo svilupparsi privato sullo sfondo di eventi pubblici. È di Ian McEwan una recente, magistrale riflessione sul saggio Nel ventre della balena, pubblicato nel 1940, nel quale George Orwell, maestro del romanzo politicamente impegnato, difende sorprendentemente l’indispensabile coesistenza di autori il cui osservatorio sia intimo e privato e di altri che, come lui, facciano i conti con l’esterno, con la realtà contingente.
Dai romanzi di McEwan, sappiamo quanto da sempre sia essenziale alla costruzione dei suoi personaggi il fenomeno di esposizione ai grandi eventi storici, che si tratti di Robbie Turner che, in Espiazione, muore partecipando alla ritirata di Dunkerque, o dell’incontro dei protagonisti la notte del crollo del muro in Lettera a Berlino, o del virtuosistico, swiftiano sberleffo alla Brexit in Lo scarafaggio. Ma conosciamo, di McEwan, anche la preziosa attenzione al dettaglio, le sue analisi meticolose di emozioni, dubbi, sentimenti, imbarazzi.
Nel caso di quest’ultimo romanzo, c’è stato comprensibilmente un grande interesse sul grado di autobiografismo relativo alle vicende narrate. La parabola esistenziale di Roland Baines ricalca molto da vicino episodi, date, luoghi della vita di Ian McEwan. Ma naturalmente Lezioni racconta anche tutta un’altra storia: se in Macchine come me McEwan lavorava sulla controfattualità storica e si divertiva (suppongo) a rovesciare l’esito della guerra delle Falkland/Malvinas, o a tenere in vita John Lennon e i Beatles, in Lezioni la storia allinea inesorabile i suoi orrori, e la controfattualità si riversa sulla vita.
Personalmente, non seguo con grande trasporto il dibattito su quanto sia o non sia autobiografica la storia di Roland Baines.
La lingua di Rose
C’è qualcos’altro in compenso che mi appassiona, qualcosa che molto di più mi riguarda, riguarda cioè il mio mestiere. Il 13 ottobre 2001 uscì sulle pagine del Guardian un pezzo di McEwan intitolato Mother Tongue (Lingua madre). Il testo si apre con queste parole: «Non scrivo come mia madre, ma per molti anni ho parlato come lei, e il suo rapporto particolarmente apprensivo con la lingua ha orientato il mio».
L’articolo si concentra su Rose (madre di Ian e depositaria della sua lingua madre) tracciandone un’identità linguistica che diventa mappa e confine di un’appartenenza sociale. Non credo sorprenda che un traduttore sia avido di questo genere di biografia dell’autore che traduce, della sua biografia linguistica.
La lingua di Rose, ci racconta McEwan, fu per lui la lingua dell’intimità ma anche del disagio, quella da “sanificare” attraverso la frequentazione dei giganti della letteratura, quella da cui sistematicamente allontanarsi: la lingua madre che «per gran parte della vita, mi sono sforzato di disimparare.
Quando cominciai a scrivere seriamente, nel 1970, è probabile che mi sia lasciato alle spalle tutti o quasi tutti i modi di dire di mia madre, ma conservavo il suo atteggiamento, la sua circospezione, l’insicurezza del tocco. Molti scrittori permettono alle loro frasi di srotolarsi empiricamente sulla pagina per scoprirne la natura, l’intento, la vocazione.
Io me ne stavo seduto senza la penna in mano, formulandomi in testa una frase, spesso perdendone di vista l’inizio prima di essere arrivato alla fine, e soltanto quando la reputavo sicura e compiuta la mettevo sulla carta… Dall’esterno quella lentezza e quell’esitazione potevano apparire come il frutto di meticolosità artistica e io ero lieto di presentarla così, o di lasciare che altri lo facessero per me».
Noi, che siamo da quasi mezzo secolo membri della comunità dei lettori di Ian McEwan, conosciamo la precisione chirurgica della sua lingua, le geometrie descrittive, la capacità di analisi, quel suo spaccare il capello in quattro per raccontare l’estasi prodotta dal depositarsi di una patatina fritta all’aceto sulla lingua, o il terrore suscitato dall’incontro improvviso con i randagi Cani neri della storia, o l’aggressività che si annida clandestina in una partita amichevole di squash. Conosciamo il suo impareggiabile tocco sicuro.
Se la strada per arrivarci è stata anche un’inesausta circospezione ereditata dalla lingua di sua madre, non possiamo che unirci a lui nella gratitudine con cui conclude l’articolo Mother Tongue. Per parte mia, spero di essermi mantenuta, nel tempo, leale nei riguardi della scrittura di Ian McEwan, e fedele al mio ruolo di testimone transitoria dei suoi romanzi.
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