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È uscito ora, per Einaudi, Artivismo. Arte, politica, impegno di Vincenzo Trione; un libro sconcertante, il che di questi tempi non è un male.
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Quel che manca, qui come in letteratura, è una comunità critica ancora in grado di formulare giudizi di valore. Le citazioni che fa Trione sono davvero troppo diverse e caotiche: da Soffici a Benjamin, da Marcuse a Calasso, da Said a Bobbio, da Giglioli a Piperno.
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I repertori riassuntivi, le etichette per districarsi nella giungla del contemporaneo sono senz’altro utili; ma senza dimenticare che le opere d’arte (impegnate o no, collettive o create da un singolo) sono comunque degli individui e come tali vanno giudicati, caso per caso.
In fatto di impegno, tra letteratura e arti figurative le cose non stanno esattamente allo stesso modo, anche se molte forme ibride (fumetto, graphic novel, performance, installazioni, poesia visiva, concettualismo) rendono oggi la distinzione meno chiara.
Le immagini colpiscono in modo più immediato e veloce, la loro fruizione è più facilmente pubblica e collettiva; in compenso sono più spettacolari e decorative, quindi più indifese di fronte alle tentazioni della superficialità e del mercato.
Pittura e scultura si sono da tempo svincolate dai limiti della cornice e della piazza, snobbano sempre di più gallerie e musei e celebrazioni, per non parlare dell’architettura che è impegnata da sempre nella definizione della pòlis. Non più quadri e statue ma “eventi” e “prese di coscienza”, rivitalizzazione degli spazi, suggestioni mass-mediatiche; fuori da gallerie e musei ma dentro ai finanziamenti degli enti locali e alle pubblicità dei siti web.
Il decentramento inteso come spinta a “portare la bellezza dove c’è il disagio” mi ha sempre fatto pensare alla vecchia principessa di Lampedusa, che per la festa di Santa Rosalia invitava a palazzo le prostitute di un vicino bordello e suonava per loro la spinetta; le ragazze si sorbivano Scarlatti o Rameau pensando al sontuoso rinfresco che sarebbe seguito.
Un’arte senza opere
È uscito ora, per Einaudi, Artivismo. Arte, politica, impegno di Vincenzo Trione; un libro sconcertante, il che di questi tempi non è un male.
All’inizio della lettura, il titolo e il claim in copertina mi avevano fatto presagire non solo la presentazione di una tendenza (l’“artivismo” appunto, mot-valise tra “arte” e “attivismo”) ma anche il suo apprezzamento e la condivisione teorica. Se non fosse che al Discorso sull’arte politica del primo capitolo si oppone nell’ultimo un Controdiscorso che da tale tendenza prende invece decisamente le distanze. (È vero comunque che il “discorso” occupa sei capitoli, mentre il “controdiscorso” soltanto uno).
Che il libro volesse essere un «percorso fenomenologico-critico attraverso le contrade dell’artivismo», e addirittura una «minima cartografia dell’arte politica del XXI secolo» l’ho capito pian piano, perché l’autore ha adottato una strategia che si potrebbe chiamare di “indiretto libero culturale”: nei primi sei capitoli, cioè, si mette nei panni dei protagonisti dell’impegno, usa le loro parole senza apparentemente contestarle, lascia che a rilevare eventuali loro contraddizioni il lettore ci arrivi da solo.
Così, per esempio, dopo aver detto che la nuova arte impegnata vuole essere testimone di ciò che accade «senza aggiungere alla realtà una virgola di finzione», poco più avanti nota come essa ami offrire alla meditazione «affreschi che mescolano fiction e non-fiction»; e dopo avere (almeno apparentemente) lodato gli artisti che «si sottraggono a ogni formalismo estetizzante», poi ritiene che alcuni di loro rimandino «alla pittura barocca».
O ancora, c’è appena una sfumatura di ironia nel segnalare che certi operatori visuali si pretendono «individui a-specifici, non riconoscibili nella folla», benché si ritengano così uguali da essere «più uguali degli altri» (all’inizio del capitolo successivo leggiamo un esergo da Orwell).
Insomma non ci troviamo di fronte a un manifesto ma a un repertorio utilissimo a mappare la situazione, con una rassegna un po’ tipologica e un po’ geografica. Trione cataloga, elenca, anzi opera una vera e propria tassonomia all’interno del fenomeno montante dell’arte politica; distingue e etichetta i vari filoni («cronisti», «poetici», «monumentali», «bio-artisti», «catastrofisti», «mistici» anzi «mistiche», «luddisti» ecc.). Accanto a categorie conosciutissime come gli street artist, si impara che esistono sottotendenze più arcane come la «ingegneria tissutale», i «paesaggi sonori» o la «demopraxia».
Le costanti che uniscono l’intera galassia sono le stesse che troviamo in letteratura: ricerca di un linguaggio alla portata di tutti, ansia di “curare il mondo”, emergenza della cronaca, ecologismo, migranti, apocalissi consolatorie – un passo avanti rispetto a chi non è ancora arrivato (o sì?) a teorizzare una letteratura senza testi, qui si teorizza un’“arte senza opere” (inaugurare un “centro per la creatività” nelle aree rurali del Senegal, o hackerare il sito del Whitney Museum per protestare contro la morte di George Floyd).
Accostamenti singolari
Come in ogni buon manuale che si rispetti, Trione prima illustra un filone e poi fa degli esempi concreti; ed è a questo punto, devo confessare, che mi sono venuti i dubbi.
Non ho trovato nessun segno di rifiuto quando il libro parla della foto (vergognosa, secondo me) in cui Ai Weiwei si offre nella stessa posa del piccolo Aylan riverso sulla battigia; e come si fa a prendere sul serio Biophilia di Björk che rende glamour pure le eruzioni vulcaniche? O gli astutissimi cartelloni di Yoko Ono che ha invaso Londra coi suoi “Sogno” e “Volare”? E davvero Trione può paragonare, senza una presa di distanza, l’installazione di Gonzáles Iñárritu (in cui si chiede al pubblico di “partecipare” alla fuga di alcuni migranti mediante la realtà virtuale) al gesto di Simone Weil che si rovina la salute andando a fare l’operaia?
È vero che sul finale Trione disegna un proprio “museo immaginario” dove sembra collocare gli autori che salva; ma anche in questa piccola raccolta di preferenze ci sono, a mio modo di vedere, accostamenti inaccettabili. Sarà perché ho visto le reazioni dei visitatori a entrambe le installazioni, ma giuro che chi camminava sui dischi di metallo trasformati da Kadishman in grida umane al Museo Ebraico di Berlino aveva l’angoscia in volto e si spaventava dei propri stessi passi, mentre i turisti che al Grand Palais giravano intorno a Personnes di Boltanski (vestiti usati, supposti essere appartenuti a vittime sommerse della Shoah, raccolti in quadrati e altri accatastati in un mucchio al centro) pensavano solo a chiacchierare.
Una cosa è il retorico Tangier Sea di Francis Alÿs, altra cosa il video di Adrian Paci, Centro di permanenza temporanea (straziante galleria di volti che si affollano su una scaletta d’aereo destinata a non partire mai). E ancora, non si può confondere Banksy con Ozmo o TvBoy.
È questione di intensità e sobrietà formale, distanza da stereotipi, ricchezza e fertilità della fantasia. Quel che manca, qui come in letteratura, è una comunità critica ancora in grado di formulare giudizi di valore. Le citazioni che fa Trione, come pezze d’appoggio critiche, sono davvero troppo diverse e caotiche: da Soffici a Benjamin, da Marcuse a Calasso, da Said a Bobbio, da Giglioli a Piperno. Una notte dove tutte le vacche sono grigie.
Valori estetici condivisi
Se è legittimo che gli artisti impegnati pensino «il proprio mestiere come pratica etica», è ugualmente necessario che tale pratica venga discussa da una comunità che riesca a concordare su alcuni valori estetici condivisi – se non vogliamo che «ogni cittadino sia invitato a sentirsi come un involontario critico d’arte».
Così si finisce al televoto. O a stiracchiare a nostro piacimento gli artisti del passato: il libro di Trione si apre e si chiude nel nome di Pasolini, forse in grazia del centenario – proprio di lui, inesausto sperimentatore di forme, si dice all’inizio che «attribuisce un’assoluta centralità alla dimensione contenutistica dell’arte»; e lo si invoca alla fine a far da patrono a quegli artisti che «si misurano con la condizione del naufragio» e scelgono il silenzio; proprio lui che non era capace di star zitto («ho paura della libertà che mi verrebbe dal tacere», scrive in Trasumanar).
I repertori riassuntivi, le classificazioni, le etichette per districarsi nella giungla del contemporaneo sono senz’altro utili; ma senza dimenticare che le opere d’arte (impegnate o no, collettive o create da un singolo) sono comunque degli individui e come tali vanno giudicati, caso per caso.
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