Ha fatto scalpore la decisione del Met di New York di vendere alcune opere per sostenere i costi di gestione. Il dibattito americano apre il problema della tutela sostenibile del patrimonio, che da noi è sempre stato un tabù
- Nel corso del 2020 le regole che disciplinano la vendita di opere d’arte sono state sospese in via eccezionale. Fino al 2022 sarà possibile per i musei americani impiegare i proventi delle vendite per pagare gli oneri correnti di gestione delle collezioni.
- Anche in questo come in tanti altri campi il Covid è stato un grande acceleratore portando a compimento una tendenza che maturava da tempo.
- Seppure in un universo lontano mille anni luce da quello americano, anche in Italia si dovrebbe affrontare con calma, pacatezza e saggezza il discorso improrogabile sulla tutela sostenibile del patrimonio culturale.
Ha fatto scalpore la decisione del Metropolitan Museum of Art di New York, una delle istituzioni culturali più vetuste e ricche d’America, di utilizzare i proventi della vendita di opere d’arte per la copertura di alcune spese correnti tra cui i salari. I musei americani hanno sempre avuto la possibilità di alienare opere delle proprie collezioni ma, fino a oggi, i ricavi potevano essere spesi solo per comprare altra arte. Vendere arte per comprare arte: funzionava così.
Per molti musei questo meccanismo è stato uno strumento formidabile di crescita qualitativa. Sviluppatisi in tempi relativamente recenti, intorno a nuclei collezionistici occasionalmente mediocri, molti musei americani hanno migliorato, proprio attraverso la vendita di opere, le proprie collezioni e allo stesso tempo le hanno estese in ambiti diversi da quelli originali, anche al fine di seguire l’evolversi degli interessi della ricerca e del pubblico.
La politica del deaccessioning ha sempre seguito regole ferree e lunghe procedure, intese a garantire la trasparenza del processo e il reale beneficio per il museo. Ad esempio i proventi delle vendite delle opere sono allocati ai dipartimenti da cui provengono, così da non sbilanciare troppo le collezioni in favore delle mode o dei rapporti di potere all’interno dell’istituzione. È cosi che sono stati venduti dipinti mediocri di artisti famosi per acquisire opere eccelse di pittori meno noti, sono spariti dai depositi dubbi arredi da giardino, sono stati ceduti falsi, copie e doppioni. Insomma, nel corso del tempo le politiche di dismissione e acquisizione hanno avuto un effetto benefico sui musei contribuendo non poco alla loro vivacità e crescita anche culturale.
Moratoria ai tempi del Covid
Nel corso del 2020 per far fronte alle grandi difficoltà economiche scatenate dalla pandemia, le regole che disciplinano la vendita di opere d’arte sono state sospese in via eccezionale, per un periodo di due anni. Fino al 2022 sarà infatti possibile impiegare i proventi delle vendite per pagare gli oneri correnti di gestione delle collezioni. Seppure questa moratoria è concepita per proteggere le istituzioni che più soffrono a causa del Covid, quelle che non possono contare su grandi capitali finanziari per pagare le spese correnti, recentemente anche giganti quali il Metropolitan Museum of Art hanno aderito alla proposta dichiarando la necessità di vendere delle opere per finanziarsi.
Il Metropolitan segue da vicino altre importanti istituzioni quali il Brooklyn Museum, l’Art Institute di Chicago e il Baltimore Museum of Art. Quest’ultimo, solo pochi mesi fa, ha dato scandalo presentando all’asta tre capolavori assoluti di Andy Warhol, Clyfford Still e Brice Marden, che secondo il direttore Christopher Bedford erano sacrificabili per garantire un aumento salariale allo staff. La prospettata vendita è stata osteggiata da molti sia all’interno sia all’esterno del museo ed è poi stata revocata.
Non sappiamo cosa metterà in vendita il Metropolitan. I depositi del museo sono molto corposi e probabilmente le opere scelte non faranno scalpore. Quello che però pare probabile è che la sospensione temporanea delle regole che governavano la cessione a terzi delle collezioni diventi permanente. All’ultima riunione della Associazione dei Direttori dei musei d’arte americani la proposta di discutere le regole generali che disciplinano la vendita di opere d’arte è stata respinta ma con solo un’esigua minoranza e il tempo da qui alla scadenza della moratoria è ancora lungo.
Ridiscutere le regole
L’autorevole direttore del Museum of Modern Art di New York, Glenn Lowry, in una recente intervista al Washington Post ha dichiarato che è giunto il tempo di ridiscutere quelle regole che, se nel passato hanno permesso ai musei di accrescere le loro collezioni, ora devono far sì che queste possano vivere al meglio. Parole che fanno riflettere.
Da qualche anno ormai, nei musei e non solo in quelli americani, l’attenzione si è spostata lentamente dalle collezioni al pubblico, dalle cose alle persone, dal museo come contenitore di tesori al museo come creatore di esperienze. Nel contesto americano questa tendenza si è scontrata con politiche ben radicate basate invece sulla crescita costante delle collezioni. Negli ultimi cento anni i musei americani hanno comprato tutto quanto di bello, caro e prezioso ci fosse al mondo, a volte anche in contrasto con le leggi di tutela dei paesi di origine delle opere. Comprare, comprare e comprare cose sempre più belle, sempre più rare, sempre più diverse.
Ora non vi è dubbio che la vendita di opere per scopi altri che quelli collezionistici mette in crisi questo modello di crescita già indebolito dalle traversie economiche antecedenti la pandemia. Anche in questo come in tanti altri campi il Covid è stato un grande acceleratore portando a compimento una tendenza che maturava da tempo: la guida sopra la crescita, l’interpretazione sopra l’accumulazione. Questa svolta avrà conseguenze importanti per il mercato dell’arte, per la missione dei musei, per le donazioni esentasse di cui godono (saranno ancora possibili?) e per le proposte culturali che i musei vorranno offrire. È questo ciò che più ci interessa del dibattito americano. Non il principio ma il metodo.
La situazione in Italia
Infatti, seppure in un universo lontano mille anni luce da quello americano, anche in Italia si dovrebbe affrontare con calma, pacatezza e saggezza il discorso improrogabile sulla tutela sostenibile del patrimonio culturale. Non si tratta qui di auspicare svendite all’ingrosso, ma è diventato pressante chiedersi cosa, perché e per chi si acquista e preserva. Il passare del tempo, le normative in materia di tutela e le tecnologie moderne di conservazione fanno sì che anche se stiamo fermi il patrimonio cresce. È una bella cosa ma come tutte le belle cose ha un costo. La manutenzione e gestione del nostro patrimonio sono sempre più onerose mentre le nostre risorse sono limitate. Siamo tutti grati allo stato per lo sforzo continuo che ha fatto fino a oggi, ma è diventato necessario chiedersi in maniera serena quanto potrà durare e se non sia giunto il momento di definire le nostre priorità nella consapevolezza che non possiamo fare tutto e quando facciamo una cosa non ne facciamo un'altra. Quanto conservare, piuttosto che interpretare? Quanto accumulare piuttosto che gestire?
Quando non tabù, questi temi in Italia sono affrontati in termini assoluti: il patrimonio culturale appartiene alla collettività? È giusto tutelare il patrimonio culturale? È un dovere della collettività preservarlo? La risposta a tutte queste domande è ovviamente sì perché a differenza di industrie, palazzi e caserme che lo stato può vendere, il patrimonio culturale è identitario, come lo sono (o dovrebbero esserlo) i parchi naturali. Di conseguenza è inammissibile porre delle domande che potrebbero elidere questi principi: può lo stato vendere il suo patrimonio culturale per pagare i debiti? No. Assolutamente no. Posta in questi termini la discussione è fine a sé stessa, caduca e la tematica rimane irrisolvibile.
Ma se pensiamo non in termini assoluti ma relativi e non per principi ma per numeri, le domande sono altre: quali e quante sono le espressioni del patrimonio culturale che hanno un valore universale? Quali e quante sono le comunità che si rispecchiano in quel patrimonio culturale? In che misura la collettività si deve o può far carico di patrimoni di interesse minoritario? In misura del 100 per cento, del 50 per cento o del 30 per cento?
E facendo degli esempi, in caso di calamità quali sono le cento opere che devono salvarsi in un museo? Se si tentasse di salvarle tutte si rischierebbe di non salvarne nessuna. Perché è più facile reperire fondi per esercitare la prelazione dello stato anche per opere di scarso interesse che per assumere un bravo educatore, video-maker, designer? È legittimo tenere opere difficilmente esponibili in depositi malsani e senza sistema antincendio? Perché un grande architetto contemporaneo non può costruire al posto di edilizia popolare anonima di cento anni fa? Vale forse meno? Quanto vogliamo investire sul passato e quanto sul futuro? Quanto preservare e quanto creare?
Se vogliamo che il nostro patrimonio continui a vivere e bene e sia della comunità rispondendo così ai suoi bisogni e ai suoi sogni, bisogna affrontare apertamente queste domande. Le risposte le troveremo nei dati di quante opere abbiamo, di come se ne fruisce e partecipa, di quanto costano e di quanti vi ci si riconoscono. Non in principi assoluti e astratti. È una conversazione difficile e a tratti aspra e accesa. Ma vale la pena farla e ora. Più che per noi, per chi verrà dopo.
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