- La ripartenza della ristorazione in uscita dalla pandemia ha scoperchiato il vaso di Pandora: lavorare nel settore è poco appetibile, gli orari di lavoro sono massacranti, i salari non adeguati. E il personale non si trova: mancano all’appello migliaia di lavoratori.
- La produzione del cibo è infinitamente più complessa della matita di Friedman, richiede saperi antichi e tecnologia avanzata.
- I grandi chef ci interessano meno delle tante braccia e teste che realizzano l’impresa quotidiana di connettere i campi con le nostre tavole.
Non si è mai parlato così tanto di cibo come in questi anni: un atto elementare e ancestrale come quello del nutrirsi è diventato un tratto identitario, che serve ad appagare tanti bisogni di status, di riconoscimento, di appartenenza, e soltanto in maniera residuale di nutrimento.
Complici i social network con i loro filtri, ci siamo concentrati così tanto sul momento del consumo da aver completamente rimosso la complessa filiera che trasforma l’energia e la materia prima in ingredienti. Poi arriva la guerra in Ucraina e scopriamo che un sussulto del mercato del grano o di quello dei fertilizzanti possono cambiare il nostro reddito disponibile, al supermercato, o condannare interi popoli alla carestia. L’economista Milton Friedman spiegava il mercato con l’esempio della matita: nessun burocrate governativo riuscirebbe a coordinare i produttori di grafite, quelli del legno, le aziende dei colori, i distributori, solo il mercato ci riesce, in una costruzione sociale che pare miracolosa.
La produzione del cibo è infinitamente più complessa della matita di Friedman, richiede saperi antichi e tecnologia avanzata, strumenti finanziari e marketing, intuizioni sulle traiettorie della società e consapevolezza delle radici. Con Cibo, il nuovo mensile allegato a Domani a cura di Sonia Ricci, vogliamo indagare il miracolo sociale della produzione e consumo di cibo fuori da ogni stereotipo (la cucina italiana, per esempio, non è solo carbonara e alici, ma ibridazione continua che si arricchisce grazie a nuovi italiani con genitori immigrati). Niente marchette, niente cene a scrocco, rifiuto della logica patinata che piace tanto agli uffici stampa.
Per questo partiamo con un’inchiesta sulle cucine e da lì ci allarghiamo a raccontare più le materie prime che le ricette, più le storie che i menu, la geopolitica dell’alimentazione invece che la retorica del made in Italy. I grandi chef ci interessano meno delle tante braccia e teste che realizzano l’impresa quotidiana di connettere i campi con le nostre tavole.
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