- Il fatto che Friends piacesse a una bambina delle elementari non depone a suo favore, ma ancora oggi quando riguardo episodi che ormai potrei recitare a memoria sento un calore familiare, tipico della nostalgia più pura e della pasta al forno di mia nonna.
- Il 27 maggio è andato in onda Friends: The Reunion, un puntatone celebrativo in cui i sei attori protagonisti – più o meno trasfigurati dalla chirurgia plastica, più o meno ingrassati, più o meno ripescati dall’oblio – si sono ritrovati sul vecchio set per un giro sul viale dei ricordi.
- Il business della nostalgia è vivo e florido, i reboot affollano le sale cinematografiche e le piattaforme di streaming, nemmeno i morti muoiono più.
Nella mia bolla sociale non si può parlare bene di Friends. Alle cene conveniamo tutti che è invecchiato male, che era scritto così così, che hanno cancellato i neri da New York, che è pieno di battute omofobe, e a un certo punto c’è sempre qualcuno che dice «Vuoi mettere Seinfeld?» mentre gli altri annuiscono solennemente. Ci fregiamo di consumi culturali più sofisticati, ansiosi di conciliare lo spirito del tempo con i nostri gusti, alla ricerca disperata di una scusa accettabile per aver passato tutte quelle ore davanti alla tv. Non ci piace mai niente, apponiamo asterischi su tutto. Siamo estenuanti.
La verità è che in queste situazioni, mentre confermo a gran voce la superiorità di Seinfeld, il mio cuore mi urla “bugiarda”. Io amo Friends, l’ho sempre amato. Quando ero bambina mia madre aveva dichiarato un embargo su Mediaset, quindi non potevo vedere nessuna delle cose di cui tutti parlavano in classe.
Traumi infantili
Non ho mai visto una singola puntata dei Pokémon o di Dragonball e sulla Rai non c’era niente da guardare, a parte i Digimon (cioè i Pokémon dei poveri), i cartoni educativi francesi come Papà Castoro e tutte quelle altre mestizie che avrebbero fatto di me una persona insopportabile, priva di qualsiasi legame con la sua generazione, nonché una dei sei elettori di +Europa alle politiche del 2018. Per fortuna la mia migliore amica veniva da una famiglia ancora più integralista della mia – eravamo le uniche che venivano allontanate dalla classe nell’ora di religione e le uniche convinte che il Grande Fratello fosse quello di Orwell e non quello di Daria Bignardi – e per fortuna sulla Rai c’era Friends, che era sì americano (a casa mia peggio dei prodotti americani solo quelli giapponesi), ma sfruttava il vuoto legislativo e su rete autorizzata mi permetteva di eludere l’embargo. Mio padre cominciò poi a regalarmi i cofanetti, uno alla volta perché i dvd erano ancora una tecnologia d’avanguardia (riposino in pace) e costavano ognuno come un mese d’affitto. In tempi in cui la solidità del nostro rapporto – padre divorziato e figlia preadolescente – era tutta in precario equilibrio su lunghe passeggiate senza meta e fervente smania consumistica, l’acquisto di un nuovo cofanetto era sempre un evento. Una volta a settimana ci trovavamo a vagare per negozi di dischi (riposino in pace), Blockbuster (riposino in pace) e centri commerciali, in cerca di aria condizionata e qualcosa da comprare, come in un remake del Giovedì di Dino Risi destinato a non finire mai. Così una stagione dopo l’altra ho messo insieme 10 anni di Friends e questa è la storia di come ho imparato l’inglese.
Calore familiare
Certo, il fatto che Friends piacesse a una bambina delle elementari non depone a suo favore, ma ancora oggi quando riguardo episodi che ormai potrei recitare a memoria sento un calore familiare, tipico della nostalgia più pura e della pasta al forno di mia nonna. Non so se è bene o male o questo fa di me una cretina, ma non posso farci niente, se non fingere che Seinfeld mi piaccia di più. Il 27 maggio è andato in onda Friends: The Reunion, un puntatone celebrativo di un’ora e tre quarti in cui i sei attori protagonisti – più o meno trasfigurati dalla chirurgia plastica, più o meno ingrassati, più o meno ripescati dall’oblio – si sono ritrovati sul vecchio set per un giro sul viale dei ricordi, un’intervista collettiva con James Corden e quello che presumo essere stato un assegno con moltissimi zeri. C’era bisogno di questa reunion? No. L’ho vista in diretta alle 9 del mattino? Certo. Ho pianto? Ovvio, ho pianto per molto meno. Sono state due ore in perfetto stile Friends: molti buoni sentimenti, nessuna traccia di conflitto. «In dieci anni di riprese, c’è qualcosa che non vi è piaciuto?» ha chiesto una spettatrice dal pubblico, cercando forse il lato oscuro che si ostinano a nasconderci. «La scimmia» ha risposto Schwimmer, esaurendo l’argomento con qualche aneddoto sul periodo in cui una scimmia ammaestrata dettava legge sul set. Sospetto ci siano stati problemi più grandi di questo, ma su tutto ciò che non è perfetto e magnifico c’è una certa omertà. Sono tutti lì per vendere la favola.
Per quanto mi riguarda è giusto così. Friends appartiene a un’epoca in cui le sit-com erano prodotti aspirazionali e la televisione non aveva la pretesa di essere una rappresentazione in scala 1:1 della realtà. Che non vuol dire certo che fosse meglio, ma è quello che è. Intrattenimento. Certe cose sono fatte solo per farci sentire bene e mentre guardo una puntata di The Handmaid’s Tale in cui tagliano il mignolo a una che si è permessa di firmare dei documenti al posto del marito, penso che in fondo la leggerezza sia una bella cosa.
Momenti a casaccio
Nel puntatone ci sono anche un po’ di momenti a casaccio, tipo una sfilata di 5 delle mise più memorabili della serie in cui però Cara Delevingne sfila due volte. Non c’era budget per un’altra modella? Hai fatto 30, fai 31; c’è un intervento di Malala che parla di Friends con l’amica sua. Che Seinfeld sarà anche scritto meglio, ma ce li ha i premi Nobel testimonial? C’è poi un aneddoto chiaramente inventato per l’occasione su una cotta reciproca di due protagonisti, c’è Lady Gaga che sta bene ovunque, e c’è David Beckham, così de botto senza senso (chiedo scusa, se non metto una citazione di Boris a pezzo non sono contenta).
Tutto sommato poteva andare peggio. I revival sono sempre pericolosi: tremo al pensiero dell’imminente Sex and the City, che pende sulle nostre teste come una borsetta di Damocle, e resto poco convinta delle tre stagioni più recenti di Will & Grace (dove compare, fra gli altri, anche Schwimmer).
Invecchiare a Hollywood poi dev’essere un’esperienza durissima e non sembra esserci una diretta proporzione tra i miliardi guadagnati e le capacità del proprio chirurgo, anzi. Lo dimostra il fatto che gli unici ad avere le facce come il filtro Pillow Face di Instagram (quello che ti gonfia i connotati come Schwarzenegger quando esce dall’atmosfera in Total Recall) sono i protagonisti, mentre i personaggi secondari hanno ancora un aspetto umano: Maggie Wheeler/Janice sta benone, Tom Selleck/Richard nel frattempo sembra un loro coetaneo, il signor Heckles è un signore normale, vecchio era e vecchio rimane.
Gli altri sembrano scappati dal video di Black Hole Sun e l’unico chirurgo che non finirà all’inferno è quello di Lisa Kudrow.
«Non ci chiederanno di farlo di nuovo fra 15 anni, questa è l’ultima volta che ci chiederanno di parlare della serie tutti insieme» dice alla fine Courtney Cox, muovendo a malapena la fessura che ha al posto della bocca come il pupazzo di un ventriloquo. Forse lo pensa davvero, o forse è una frase messa lì per strapparci le ultime lacrime. Ma in cuor nostro sappiamo che non è vero.
Il business della nostalgia è vivo e florido, i reboot affollano le sale cinematografiche e le piattaforme di streaming, nemmeno i morti muoiono più. La rivoluzione non sarà trasmessa in televisione, cantava Gil Scott Heron. Ma la nostalgia occuperà tutto il palinsesto.
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