Il protagonista del romanzo dello scrittore russo si autoinfligge sia la punizione morale che quella penale. Ma cosa succederebbe in un mondo in cui il colpevole non avesse invece remore religiose e morali?
«Dostoevskij non è un grande scrittore, bensì uno scrittore mediocre, con sprizzi di eccellente umorismo intervallati da deserti di banalità letterarie. Tutti i suoi romanzi più famosi furono scritti sotto perenne costrizione: doveva lavorare velocemente per rispettare le scadenze, e non aveva tempo di rileggere ciò che aveva scritto, o addirittura dettato».
Queste parole, a prima vista scandalose, si leggono nelle Lezioni di letteratura russa (1981) di Vladimir Nabokov, uno dei grandi scrittori russi del Novecento, che essendo più interessato alla qualità letteraria che al contenuto emotivo dei libri, non poteva che disdegnare le imperfette opere del compatriota dell’Ottocento. Non le sopportava neppure Ivan Bunin, un altro dei grandi scrittori russi del Novecento, oltre che il primo di loro a ricevere il premio Nobel nel 1933, che riassumeva sprezzantemente la ricetta usata da Dostoevskij per cucinare i suoi romanzi nel motto: «Usare Gesù come il prezzemolo».
Il meno imperfetto dei romanzi maturi di Dostoesvkij è sicuramente Delitto e castigo, un thriller esistenzialista che scorre abbastanza linearmente dalla sorgente alla foce, senza indugiare troppo nei sonnolenti e melmosi meandri nei quali si impantanano le fiumane successive. Ma, naturalmente, non mancano neppure in Delitto e castigo le divagazioni da oratorio, che in seguito diventeranno vere e proprie prediche: prima fra tutte l’episodio dell’assassino che legge il Vangelo in ginocchio insieme alla prostituta, definito «senza senso» da Nabokov e «indimenticabile» dal teologo Romano Guardini.
Divagazioni di oratorio
In ogni caso, il cristianesimo in salsa russo-ortodossa non è soltanto un condimento del poliziesco alla Dostoevskij, ma uno dei suoi ingredienti principali.
Lo conferma questa lettera del settembre 1865, scritta in un periodo in cui lo scrittore aveva perso tutto alla roulette nel casinò di Wiesbaden, e trovandosi con l’acqua alla gola proponeva all’editore Michail Katkov la trama di un racconto, che sarebbe poi diventato Delitto e castigo: «L’idea di base è il resoconto psicologico di un delitto. Il protagonista decide di uccidere una vecchia usuraia, che è stupida, sorda, malata, avida e malvagia. Il giovane riesce a portare a termine la sua impresa criminosa per puro caso, rapidamente e felicemente. Dopodiché passa quasi un mese fino alla catastrofe definitiva. Su di lui non ci sono sospetti, e nemmeno ci possono essere. Ma è proprio a questo punto che si sviluppa tutto il processo psicologico del delitto. Dei problemi insolubili si pongono all’assassino, dei sentimenti inattesi e imprevedibili straziano il suo cuore. La verità divina e la legge terrena reclamano ciò che è a loro dovuto, ed egli si trova ridotto, anzi costretto ad autodenunziarsi. Nel racconto c’è inoltre un’allusione all’idea che la punizione, che viene imposta per legge al criminale per il suo delitto, in realtà lo spaventa molto meno di quanto s’immaginino i legislatori, giacché è lui stesso a esigerla moralmente».
La moralità
Il ripetuto riferimento alla legge non è casuale, visto che il titolo originale del romanzo era Delitto e pena, e si ispirava direttamente al trattato Dei delitti e delle pene (1764) di Cesare Beccaria, tradotto in russo nel 1803. L’espressione Delitto e castigo è un equivoco della prima traduzione francese (1884), che non colse il riferimento a Beccaria, e usò il termine “castigo” invece di “pena”. L’equivoco fu poi trasmesso alla prima traduzione italiana (1889), che venne fatta dal francese, invece che dal russo.
Nel romanzo è comunque il colpevole stesso ad autoinfliggersi sia il castigo morale che la pena legale, oppresso dal peso della propria fede e dal rimorso della propria coscienza. Ma cosa succederebbe in un mondo in cui il colpevole non avesse invece remore religiose e morali? La risposta è condensata in una battuta di Mark Twain in Seguendo l’Equatore (1897): «Il senso morale ci insegna a percepire la moralità e a evitarla, il senso immorale a percepire l’immoralità e a godercela». Detto altrimenti, la moralità non evita il male, che tutti commettono, ma l’immoralità evita il rimorso, che non tutti provano.
Questo tema è stato sviluppato da Woody Allen in una serie di quattro film, il primo dei quali ammicca al romanzo di Dostoevskij fin dal titolo: Crimini e misfatti (1989). La sua scena finale affronta di petto il discorso del delitto e della pena, mettendo a confronto l’assassino e il regista stesso. L’assassino ammette che agli inizi è difficile non provare rimorso, ma constata che con il passare del tempo si finisce per razionalizzare, grazie all’istinto di sopravvivenza. Il regista suggerisce che, in un mondo senza Dio, l’uomo dovrebbe assumere su di sé le responsabilità delle proprie azioni, accettando l’essenza tragica della vita. Ma la conclusione dell’assassino è che questa è solo una fantasia: il lieto fine morale non si trova nella realtà, ma solo nei film (e nei romanzi).
Crimini e misfatti ripropone dunque il sillogismo che «in un mondo senza Dio tutto è permesso», ma non lo considera affatto una dimostrazione per assurdo della validità dell’etica religiosa. Al contrario, lo propone come un’espressione della modernità, nella discussione a pranzo tra il padre ortodosso e la zia atea dell’assassino. Il padre sostiene che, poiché Dio punisce i cattivi, chi commette un crimine prima o poi pagherà. La zia ribatte che se invece la fa franca, e non si lascia prendere dai rimorsi, allora è completamente libero: la morale c’è solo per chi la vuole. Ma il padre conclude che chi crede vive comunque una vita migliore di chi dubita, anche nell’ipotesi che la fede sia sbagliata. Per lui, è meglio preferire Dio alla verità: una cecità intellettuale che nel film si riflette nella cecità fisiologica del rabbino.
Il ruolo della fortuna
Le problematiche di Delitto e castigo ritornano in Match point (2005), questa volta con riferimenti espliciti a Dostoevskij e al suo romanzo. Non solo il protagonista legge il libro in una delle prime scene, e ne discute in seguito, ma la sua vicenda ricalca da vicino quella di Raskolnikov. In particolare, il commissario riesce a capire che è lui il colpevole, come nel romanzo, ma viene sviato da un tema nuovo che Allen introduce nella vicenda: il ruolo del caso e della fortuna, che nella visione laica prendono il posto della Provvidenza.
Il tema è illustrato fin dagli inizi dalla pallina di tennis che batte sulla rete e rimane in bilico per un attimo, prima di cadere da una delle due parti. Il commento del futuro assassino è che «la gente ha paura di ammettere quanto la vita dipenda dalla fortuna: fa paura pensare che così tante cose siano fuori dal nostro controllo». Alla fine egli stesso, ormai rassegnato a essere scoperto e punito, viene salvato da un episodio analogo, che avrebbe anche potuto dannarlo: quando butta i gioielli nel fiume per far sparire le prove, la vera nuziale della vittima batte sulla balaustra e torna indietro sul marciapiede. Ma invece di fungere da prova a suo carico, finirà per incriminare ingiustamente un pregiudicato che l’ha casualmente trovata e raccolta.
Quanto a Cassandra’s dream (2007), tradotto in italiano come Sogni e delitti, ammicca a ben due romanzi di Dostoevskij. Da un lato, a Il giocatore, nella passione per il gioco d’azzardo di uno dei protagonisti, che lo porta ad accettare l’omicidio su commissione per ripagare i debiti contratti. Dall’altro lato, al solito Delitto e castigo, ma trasferendo il conflitto interiore tra le due anime dell’assassino nel confronto esteriore di due fratelli.
Uno, quello morale, teme che Dio ci sia, oppone resistenza al delitto, vuole costituirsi dopo averlo compiuto, e alla fine si suicida. L’altro, quello immorale, afferma che Dio non c’è, compie l’assassinio senza remore, ed è disposto a sacrificare anche il fratello, quando i suoi rimorsi rischiano di farli scoprire entrambi.
Irrational man (2015), infine, mutua il titolo dall’omonimo e popolare saggio divulgativo di William Barrett L’uomo irrazionale. Uno studio della filosofia esistenzialista (1958), nel quale Delitto e castigo veniva indicato come un precursore del concetto di “volontà di potenza” di Nietzsche. Il film non solo ripropone un’ennesima variazione dei temi del romanzo di Dostoevskij, ma mostra addirittura il libro stesso sullo schermo. Esso viene letto dal professore assassino, e la studentessa in cerca di indizi contro di lui lo trova aperto su una pagina appuntata che indica i nomi dei protagonisti di Delitto e castigo (Raskolnikov) e dei Demoni (Stavrogin, Kirillov e Verchovenskij).
Questa non è però la citazione più esplicita dei romanzi di Dostoevskij in un film di Woody Allen. Già in Amore e morte (1975) si trovava infatti questo divertente omaggio all’opera omnia dello scrittore russo ortodosso, quasi un pegno d’amore da parte del regista ebreo americano, che in poche righe riesce a citare ben nove opere del romanziere: «Ricordi quel nostro bravo vicino, Raskolnikov? Ha ammazzato due donne. Che Brutta storia! L’ho sentito da uno dei Fratelli Karamazov. Sarà stato sotto l’influsso dei Demoni. Beh, era un’Adolescente. Ma quale adolescente! Un Idiota, piuttosto. Tipico degli Umiliati e offesi. Sembra fosse un Giocatore. Allora potrebbe essere il tuo Sosia. Cose da romanzi!».
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