«È stata soprattutto Audre Lorde, una delle mie autrici preferite, a insegnarmi come riflettere sulle emozioni significhi riflettere sulle nostre relazioni», dice la scrittrice, teorica e attivista femminista Sara Ahmed. Nel Regno Unito, dove sta presentando il suo nuovo libro The Feminist Killjoy Handbook, Ahmed è un punto di riferimento femminista già da tempo. Ora, man mano che i suoi testi vengono pubblicati in Italia finalmente tradotti, è destinata a diventarlo anche qui. Ha insegnato alla Goldsmiths University di Londra, ha fondato lì il Centre for Feminist Research e, nel 2016, si è licenziata per protesta verso la gestione delle molestie sessuali da parte dell’università. «Un modo», spiega, «per rimanere coerente con i miei valori femministi».

Oggi è una ricercatrice indipendente, molto amata anche per il suo blog feministkilljoys.com. Significa “femminista guatafeste”, ossia colei con cui non vorresti trovarti allo stesso tavolo come spiega Un’altra cena rovinata, da poco pubblicato da Fandango Libri. È una raccolta di saggi dell’autrice curata da Michela Baldo ed Elia A.G. Arfini, un’utile panoramica del suo lavoro che spazia dalla teoria femminista e queer, ai processi di razializzazione, al ruolo sociale delle emozioni.

Ahmed scrive nel suo Vivere una vita femminista che è possibile tracciare il proprio percorso con il femminismo anche in termini emotivi: rabbia, dolore, amore, speranza. «Spesso è il non sentire come sentono gli altri che ci porta a prendere coscienza delle emozioni come risorsa per dare un senso alle cose o per darci uno scopo nella necessità di cambiarle».

Possono le emozioni, così spesso svalutate rispetto ai pensieri, essere fonte di conoscenza?

Ponendo l’accento sulle emozioni possiamo iniziare a pensare ai modi in cui conosciamo e entriamo in relazione con il mondo senza che ciò passi necessariamente attraverso la mente cosciente. Nelle tradizioni filosofiche europee l’enfasi è stata posta sull’essere distaccati e oggettivi, mentre le emozioni sono viste come influenzate dal corpo, come reattive e non attive, incarnate e non cognitive. In molti hanno indagato le emozioni, ma il femminismo in particolare ha sfidato questo dualismo cambiando la nostra comprensione della relazionalità umana. Anche una reazione corporea può portare allo sviluppo della conoscenza, a volte il corpo fornisce informazioni ancora prima di un pensiero o un ricordo.

Nella retorica politica ad alcuni soggetti vengono associate certe emozioni, lei fa l’esempio dei richiedenti asilo con l’odio e la paura. Avviene solo con le emozioni negative?

Nel mio libro The Cultural Politics of Emotions parlo di come i gruppi di estrema destra usino il linguaggio dell’amore. Quindi «non lo facciamo perché odiamo loro, ma perché amiamo noi». E questo "noi” può riferirsi alle persone bianche o anche ai cittadini. Dipingono i migranti come fonte di pericolo piuttosto che focalizzarsi sui pericoli che sono già all’interno del paese.

Penso anche alla propaganda antiabortista.

La retorica anti-aborto utilizza spesso l’amore e il senso di protezione verso qualcuno che è vulnerabile. C’è un’umanizzazione dei nascituri come se fossero già una vita autonoma rispetto alla donna, al suo corpo e alle sue scelte. Di conseguenza c’è una richiesta di visualizzare la figura del feto e la sacralità della vita per collegarli a una sorta di progetto nazionale: la nazione lotta per conto dei bambini non nati.

Tendiamo a vedere le emozioni come qualcosa di privato, interno al soggetto che le prova, ma la sua teoria delle economie affettive cambia prospettiva. In che modo?

Uno dei modelli per pensare alle emozioni è quello più psicologico che io chiamo “inside-out”, “da dentro a fuori”, per cui abbiamo dei sentimenti dentro e li esprimiamo. In sociologia, però, c’è anche il modello che definisco “outside-in”. Ma come fanno le emozioni a muoversi da forme sociali esterne verso l’interno? Il mio modello di economia affettiva cerca di dire che le emozioni riguardano la creazione del confine stesso tra interno ed esterno. Quello che mi interessa è come si presume che la felicità, ad esempio, risieda in certe situazioni o oggetti per cui, se li otteniamo, allora la felicità sarà ciò che segue. Rimango colpita quando viene detto che il giorno del matrimonio è il più felice della vita prima ancora che accada. Così puoi venire indirizzato verso il matrimonio come istituzione perché ti è stato detto che la felicità seguirà quell’evento e il vivere la vita in un certo modo. Le emozioni si attaccano a certi oggetti che diventano beni e circolano come merci.

Anche la famiglia, scrive, è uno di questi “happy object”, ma solo un tipo specifico di famiglia. 

C’è ancora bisogno di una critica alla famiglia come garanzia di felicità organizzata attorno a ciò che la poetessa e teorica femminista lesbica Adrienne Rich ha definito “eterosessualità obbligatoria”. La famiglia è stata idealizzata, ci è voluto tanto lavoro femminista per mostrare che è anche luogo di violenza. Eppure si continua a vederla come violenza domestica e non come una questione politica. Dobbiamo continuare a politicizzare la famiglia come istituzione storica in cui si sono verificate pratiche oppressive. E poi ci sono diversi modi per reinventare la famiglia in modo che non significhi più solo qualcosa di limitato a un uomo, una donna, un bambino e un cane. Possiamo riorganizzare il nostro rapporto con essa, “queerizzare” la famiglia. Espandere il significato di una parola storicamente usata in modo restrittivo in modo che diventi qualcosa di completamente diverso.

La felicità, dunque, può diventare imposizione?

Scrivendo La promessa della felicità mi ha colpito come le femministe di tutto il mondo l’abbiano in qualche modo criticata. Simone de Beauvoir ha detto: «È troppo facile descrivere come felice la situazione che si vuole imporre agli altri». A volte ci sono situazioni in cui non riusciamo a sentirci come ci viene detto che dovremmo sentirci. C’è una sorta di divario che può portare delusione, ma anche a cambiare il nostro rapporto con le cose e a renderci conto che ciò che ci viene detto che ci renderà felici non necessariamente lo farà. Così la felicità diventa lotta politica.

E così nasce la “feminist killjoy”. Chi è la femminista guastafeste?

Deriva da uno stereotipo, da un giudizio negativo per cui le femministe parlano solo di sessismo o molestie sessuali perché sono infelici e vogliono rovinare la felicità della famiglia, della nazione. Creano tensione, privano di qualcosa di bello. Ho preso questa figura del vocabolario antifemminista e l’ho rivendicata per dire «beh, se parlare di sessismo, razzismo, omofobia e transfobia ti rende infelice, allora è giusto che tu lo sia». In questo senso siamo disposte a causare infelicità anche se non è il nostro scopo. Molte persone si sono riconosciute in questa esperienza. Magari erano a cena in famiglia e qualcuno diceva qualcosa di offensivo o problematico, nel mio caso era mio padre. Quando dici che hai un problema, diventi tu il problema, l’attenzione va su di te. Siamo disposte a diventare il problema se è ciò che serve per iniziare ad affrontarlo. Chiedere un cambiamento, magari chiedere di usare un linguaggio neutro o il rispetto dei propri pronomi, viene visto come un’imposizione, una privazione della libertà di fare come si è sempre fatto. Eppure il cambiamento è parte della società umana. Quello che non viene riconosciuto è la natura impositiva di ciò che stiamo cercando di cambiare.

Nella mia copia di The Feminist Killjoy Handbook (in traduzione per Fandango) ha scritto la dedica “In killjoy solidarity”. C’è felicità nella solidarietà guastafeste?

Firmo così le mie lettere. Per me significa “Solidarietà di fronte a ciò che incontriamo” o “Solidarietà è come affrontiamo ciò che incontriamo”. Ne abbiamo bisogno per ricavarci uno spazio nel mondo e ci fa tenere a mente ciò che è difficile, doloroso, ciò che manda in frantumi le nostre vite. Non è una solidarietà rassicurante e automatica: potremmo avere un legame come femministe guastafeste, ma non significa che saremo sempre d’accordo. Audre Lorde scrive «Per resistere alle intemperie, dovevamo diventare pietra». La violenza sociale e fisica ci può indurire e così ci allontaniamo le une dalle altre. C’è molto lavoro legato alla solidarietà. Può essere turbolenta e dolorosa, ma anche portare le nostre energie nella stessa stanza per creare spazio l’una per l’altra. La parola inglese “felicità” deriva da “hepp” che in inglese antico significa “possibilità”. Mi piace pensare che le versioni femministe e queer della felicità abbiano più “hepp”, più possibilità. Quando penso alle comunità che creiamo, c’è felicità in quel pensiero, nel sapere che la felicità è frutto del lavoro che facciamo.


Un’altra cena rovinata (Fandango 2023, pp. 352, euro 22) è una raccolta di saggi di Sara Ahmed

© Riproduzione riservata