Da mezzo secolo il Vaticano vive di una splendida rendita, quella dell’arte contemporanea. Grazie a un uomo: Giovanni Battista Montini, dal 1963 al 1978 papa con il nome di Paolo VI, sin da giovane affascinato, ma non succube, della modernità. Così, in un tempo dove il declino culturale del cattolicesimo, anche nella committenza artistica, era – ed è – sempre più palese, il pontefice bresciano innovò radicalmente. Anche in questo ambito, benché la sua seminagione stenti a dare frutti.

Solitamente si considera punto di partenza di questa rivoluzione l’incontro di Montini con gli artisti, invitati il 7 maggio 1964 nella cappella Sistina per la messa dell’Ascensione. Un invito che si rivelò propizio. «Sono mai venuti gli artisti dal papa? È la prima volta che ciò si verifica, forse» esordì il pontefice. E anche se questi «sono sempre stati in relazione col capo della chiesa cattolica», ora «si è perduto il filo di questa relazione» riconobbe con franchezza Paolo VI. Che propose di riallacciarlo: «Noi abbiamo bisogno di voi», perché «la vostra arte è proprio quella di carpire dal cielo dello spirito i suoi tesori e rivestirli di parola, di colori, di forme, di accessibilità».

Il discorso 

Meno ricordato è invece un altro discorso. Il 23 giugno 1973 nel cuore dei musei vaticani il papa inaugurò infatti la nuova Collezione di arte religiosa moderna con un testo altrettanto importante che, con quello del 1964, resta la chiave di lettura del nuovo rapporto tra chiesa cattolica ed espressioni artistiche. Tutto di pugno di Montini – l’ultimo papa a preparare di persona la maggior parte dei suoi testi, dei quali si conservano gli autografi e che sono accessibili sul sito della Santa sede (www.vatican.va) – e segnato da uno stile appassionato e inconfondibile, il discorso è coerente con il cristianesimo di quest’uomo nello stesso tempo moderno e antico.

Secondo una visione che il pontefice aveva anticipato nella Ecclesiam suam, enciclica programmatica del pontificato, ultimata nell’estate del 1964 e dove era delineato con chiarezza il rapporto con la contemporaneità: «La chiesa avverte la sbalorditiva novità del tempo moderno; ma con candida fiducia si affaccia sulle vie della storia, e dice agli uomini: io ho ciò che voi cercate, ciò di cui voi mancate». E poco più tardi, in un appunto personale pubblicato postumo, Montini aveva descritto la propria vita come «amore al nostro tempo, al nostro mondo, a quante anime abbiamo potuto avvicinare e avvicineremo; ma nella lealtà e nella convinzione che Cristo è necessario e vero».

Non erano solo parole, sia pure ispirate. In quello stesso 1964 il papa affidava infatti a Pier Luigi Nervi l’incarico di costruire una nuova aula delle udienze sul fianco meridionale di San Pietro per liberare la basilica dagli incontri settimanali con i fedeli, sempre più affollati. E fu proprio Paolo VI a inaugurare nel 1971 la grandiosa aula, confidando di avere incoraggiato l’autore a «osare» per «tentare opera non meschina o banale, ma cosciente della sua privilegiata collocazione e della sua ideale destinazione». E in effetti il risultato – che resta la maggiore realizzazione del Vaticano contemporaneo – regge il confronto con «l’incombente vicinanza della basilica di San Pietro».

Quel sabato d’inizio estate il papa tornava sulla questione aperta con la messa del 1964 nella cappella Sistina. «L’arte religiosa è frutto d’altra e ormai sorpassata stagione dello spirito umano?» si chiedeva. «La chiesa avrebbe solo musei, gelosi custodi dei lavori degli antichi artisti, solo perciò superbi e magnifici cimiteri»? Il pontefice rispondeva di no, inaugurando la collezione e sostenendo che «esiste anche in questo nostro arido mondo secolarizzato, e talvolta perfino guasto di profanazioni oscene e blasfeme, una capacità prodigiosa – ecco la meraviglia che andiamo cercando! – di esprimere, oltre l’umano autentico, il religioso, il divino, il cristiano».

Chi conosceva Montini non si meravigliò. La sua sensibilità per l’arte risaliva almeno agli anni Trenta e si era riflessa un ventennio più tardi durante il suo episcopato milanese, quando nel 1957 aveva immaginato che la chiesa stessa parlasse agli artisti: «Venite ad aiutarmi, perché io ho un tesoro da consegnare agli uomini; date forma a questi concetti sublimi della religione, io ho da elevare la vostra arte a sacerdozio, che sia mediatore tra Dio e gli uomini».

La collezione 

Il progetto di Montini si era incrociato con l’iniziativa avviata sullo scorcio del pontificato di Pio XII da un prelato italiano, Ennio Francia, di aprire i musei vaticani all’arte contemporanea, sia pure timidamente. Vi era poi stata la vicinanza a Giovanni XXIII di Giacomo Manzù, che stava lavorando a San Pietro all’impressionante porta della Morte e che avrebbe poi realizzato una cappella della Pace, entrambe celebrazioni del concilio e dei suoi due papi: Roncalli e Montini. Così nel 1973, nel nucleo del Vaticano medievale – tra gli ambienti rinascimentali dell’appartamento Borgia e le soglie della Sistina – per la prima volta entrava davvero l’arte contemporanea. E a pieno titolo.

Con una successione di opere donate ed esposte su tre livelli in ben 55 sale. Nell’ordine espositivo, erano rappresentati artisti come Soffici, Rosai, Rodin, Matisse, Messina, Minguzzi, Fontana, Greco, Carpi, Manzù, Rouault, Gauguin, Klee, Dix, Sutherland, Chagall, Kandinskij, Morandi, Carrà, De Chirico, Casorati, Martini, Sironi, Nolde, Ernst, Severini, Dalí, Ensor, Bacon. Per questa prima raccolta si erano mobilitati soprattutto Pasquale Macchi, il segretario personale del papa, e il filosofo Jean Guitton, che nel 1966 aveva pubblicato in un libro, i Dialoghi con Paolo VI, il più bel colloquio con un papa.

Autore lui stesso di quasi duecento piccoli ed evocativi dipinti poi confluiti in una magnifica raccolta montiniana (la collezione bresciana Arte e spiritualità, con oltre un migliaio di opere pittoriche di cui Cecilia De Carli ha curato per Studium il catalogo), Guitton fallì però un obiettivo ambizioso: quello di ottenere una Vergine da Picasso. Dell’artista spagnolo figurano comunque nella collezione vaticana due ceramiche, dono di un privato.

La svolta

Quasi a mettere le mani avanti, inaugurando la collezione Paolo VI rispondeva a possibili obiezioni alle novità introdotte – diceva – in «questo giardino terrestre dell’arte religiosa», e soprattutto dimostrava di averne una concezione molto larga e fiduciosa: «Non è vero che solo alcuni determinati criteri dell’arte dei tempi passati abbiano qui libero ed esclusivo ingresso». E nemmeno è vero che «i criteri direttivi dell’arte contemporanea siano segnati soltanto dall’impronta della follia, della passionalità, dell’astrattismo puramente cerebrale e arbitrario».

Papa Montini riconosceva sì che «l’artista moderno è soggettivo, cerca più in sé stesso che fuori di sé i motivi dell’opera sua». Ma – aggiungeva – «codesta arte, che nasce più dal di dentro che dal di fuori, è documento che non solo ci interessa, ma ci obbliga a conoscerla; vogliamo dire, a leggervi dentro l’anima dell’artista, anzi l’anima contemporanea, di cui egli, sciente o no, si fa interprete e specchio sensibile». Quasi «profeta e poeta, a suo modo, dell’uomo di oggi, della sua mentalità, della società moderna».

In mezzo secolo la collezione si è accresciuta e, quasi decuplicata, consta di novemila opere. Il primo curatore, Mario Ferrazza, ne ha documentato (dal 1974, e con il catalogo del 2000) la crescita. Poi Micol Forti ha descritto le acquisizioni fino al 2003 e ora, con Francesca Boschetti e Rosalia Pagliarani, origini, storia e trasformazioni della collezione. In un volume – Contemporanea 50, Edizioni Musei Vaticani, introdotto da Barbara Jatta, direttrice dei musei, e dai cardinali Mendonça e Ravasi – che registra le donazioni dell’ultimo ventennio: con opere di Bonanotte (autore nel 2000 della nuova porta bronzea dei musei), Paladino, Scorzelli, Mitoraj, Botta, Strazza, Calatrava, Folon.

La svolta montiniana ha avuto un riflesso persino sul compassato quotidiano vaticano, uso ad annunciare l’elezione di un pontefice incorniciando la prima pagina con un fregio. Ottocentesco e nero, dopo la morte di Paolo VI il fregio fu disegnato da Manzù in giallo e ripetuto per i papi succedutisi dal 1978. E nel 2013 si è trasformato nelle foglie coloratissime di una visionaria artista napoletana, Isabella Ducrot. Che ha spesso illustrato Donne Chiesa Mondo, il mensile femminile del giornale, ed è stata celebrata da Rebecca Mead sul New Yorker del 22 luglio.

© Riproduzione riservata