- Un giorno di fine estate, mentre passeggiavo per Copenaghen con mio marito, vidi un quadro a una bancarella che mi fece fermare di colpo
- Passandoci davanti mi resi conto che si trattava di un ricamo incorniciato, dove i miei occhi avevano appena letto la parola «Hitler». Ricamata a punto croce
- È una tela di cinquanta per settanta, fitta di parole, simboli e semplici disegni. Ci eravamo imbattuti in un racconto, una storia dettagliata e avvincente. Le prime parole ricamate in alto erano: «Danimarca, 9 aprile 1940»
Un giorno di fine estate di qualche anno fa stavo passeggiando per Copenaghen con mio marito. Credo fosse fine agosto o inizio settembre, una di quelle giornate che splendono di un oro intenso ma lasciano comunque una sensazione di malinconia, perché l’estate potrebbe finire da un momento all’altro.
Camminavamo senza fretta. La città era silenziosa, i negozi quasi tutti chiusi. Nel nostro vagare senza meta avevamo appena tagliato per Israels plads, dove nel fine settimana spunta sempre qualche banchetto che vende roba di seconda mano, e tutto a un tratto vidi qualcosa che mi fece fermare di colpo.
Un ricamo misterioso
Quella domenica sulla piazza c’era un unico banchetto, carico di vecchie pellicce di visone, candelabri d’ottone, posacenere, bigiotteria e posate d’argento annerite. Ma c’era anche qualcos’altro. Un quadro posato per terra, a ridosso del banco. L’avevo intravisto, ma senza farci troppo caso. Solo quando ci passammo davanti mi resi conto che si trattava di un ricamo incorniciato, dove i miei occhi avevano appena letto la parola «Hitler». Ricamata a punto croce.
Mi voltai per guardare meglio e ne individuai un’altra: «Gestapo». E subito accanto: «SS». Un ricamo nazista, quindi? Decisi di comprarlo. Detto fatto. Fu mio marito a portarlo fino a casa, tenendolo al contrario per tutto il tragitto.
È una tela di cinquanta per settanta, fitta di parole, simboli e semplici disegni. Ci eravamo imbattuti in un racconto, ne eravamo certi, una storia dettagliata e avvincente. Le prime parole ricamate in alto erano: «Danimarca, 9 aprile 1940». Ogni scolaretto danese conosce il significato di quella data. Fu il giorno in cui i nazisti marciarono in armi sul paese, i carri armati pronti a sparare, il giorno in cui le guardie del palazzo reale di Copenaghen, colte alla sprovvista, tentarono di difendere la monarchia danese. Quattro ore dopo sedici giovani soldati giacevano cadaveri con i loro berrettoni, e l’occupazione era un dato di fatto.
La Gestapo allestì il suo quartier generale in pieno centro, nella cosiddetta Shellhuset, dove i prigionieri politici venivano torturati e poi tenuti in ostaggio nel sottotetto come scudi umani contro i bombardamenti aerei. E guarda caso, elegantemente ricamata accanto alla sigla «SS» c’è proprio la parola «tortura». Nell’angolo in basso a sinistra troviamo anche «Shellhuset», ricamata in nero accanto a un soldato accosciato con una serie di svastiche intorno.
La tela parlava quindi dell’occupazione nazista, che i danesi chiamano «besættelsen», «l’occupazione» per antonomasia. Ma chi l’aveva ricamata, perché, e per chi? Passammo la serata a decifrarne il contenuto, come si farebbe con un messaggio in codice, e mio marito riuscì quasi subito a identificare diversi concetti chiave relativi agli anni della Seconda guerra mondiale in Danimarca.
Al centro della tela, ricamato in giallo oro, campeggiava lo stemma di re Cristiano. A destra spiccavano i nomi di battaglia di alcuni dei più celebri protagonisti della resistenza, come «Citronen» e «Flammen», seguiti dai gruppi di combattenti «Hvidstensgruppen» e «Holger Danske». E poi ecco una ghirlanda verde chiaro, ricamata attorno a un crocifisso con la scritta «Ryvangen». Si tratta di un quartiere situato tra il centro di Copenaghen e l’elegante sobborgo di Hellerup, dove un tempo sorgeva una caserma con un poligono di addestramento. Durante la guerra divenne il luogo tristemente noto dove i tedeschi giustiziarono un centinaio di partigiani danesi.
Sulla tela spiccavano anche i nomi della partigiana anglo-danese Monica Wichfeld, ricamato in rosso e blu, e quello del leader nazista norvegese Quisling, in nero. In mezzo a tutto questo, parole apparentemente fuori contesto come «ravanelli» o «grigioverde». Ma il ricamo aveva una sua logica, e voleva raccontare una storia precisa. Ero io che facevo fatica a decifrarla per via dello shock visivo di quel lavoro d’ago.
Occupazione femminile
Ricamare è in genere un’occupazione del tempo privato. Nessuno si porterebbe dietro ago e filo a una festa o in un locale. Ne vengono fuori tele decorative, fodere per cuscini o quadretti con qualche frase fatta. Personalmente mi diverto a ricamare acronimi come «WTF» («what the fuck») da regalare in giro, incorniciati da rondini, lepri, o cuoricini. Oppure mi faccio trasportare dai colori, dal modo in cui si richiamano a vicenda o creano contrasti, e lascio che il filo parli da sé con motivi astratti che poi diventano fodere per cuscini.
Quasi tutto quello che ho ricamato o lavorato ai ferri l’ho regalato o dato via. Ad appagarmi è il lavoro in sé, il senso di pace e il piacere tangibile che mi regala. Il filo, l’ago, il ritmo del cucire, dell’aggiungere un punto dopo l’altro, un colore dopo l’altro, una riga dopo l’altra: sentire i pensieri andare a fondo mentre il lavoro prende forma nelle mie mani.
Il ricamo è un’attività legata alle mura di casa: lo si fa nei momenti liberi, e a farlo sono soprattutto le donne. Seguendo la stessa logica, i lavori d’ago in generale sono visti come qualcosa di intimo e fuori dal tempo, non certo un’attività politica o sociale. Si eseguono in solitudine, nel silenzio che nasce dalla concentrazione e dallo studio degli schemi. Eppure quel cimelio da mercatino strideva vistosamente con le idilliache associazioni legate al punto croce.
Bombardieri e navi cariche di rifugiati si contendevano il posto con scritte come «campi di concentramento tedeschi» e «ebrei di Danimarca». Mi rendevo conto che quel ricamo era un documento storico. Ma era anche qualcosa in più. Era l’elaborazione di un dolore collettivo, ed era un ricordo.
Storie diverse
Più tempo passo in Danimarca, più mi rendo conto di quanto poco gli scandinavi sappiano gli uni degli altri, pur essendo una comunità ristretta. Malgrado lingue relativamente simili e uno stato sociale fondato sugli stessi principi, i paesi nordici hanno identità notevolmente diverse, e in questo la seconda guerra mondiale è uno spartiacque decisivo.
Allo scoppio del conflitto la Svezia mantenne una posizione neutrale che affondava le sue radici all’inizio del XIX secolo, dopo le guerre napoleoniche. Mai più il paese si sarebbe schierato dalla parte di una potenza belligerante, così si diceva.
Anche Danimarca e Norvegia si dichiararono neutrali, ma non ebbero possibilità di scelta. Quando i tedeschi decisero di prendere il controllo dei porti norvegesi, entrambi i paesi caddero sotto il giogo nazista.
La mattina del 9 aprile 1940 Gudrun Hansen, moglie del curato di Saxolid, sulla costa orientale dello Jutland, fu svegliata da un rombo di motori. Vide gli aeroplani tedeschi che sorvolavano la penisola a bassa quota, in formazioni di tre. I nazisti avevano già preso il controllo delle trasmissioni radio e ordinarono ai danesi di starsene tranquilli e non reagire. Da quel giorno cominciò l’oscuramento: tutte le finestre furono schermate con cartoni o tende pesanti e tutti i lampioni rimasero spenti durante la notte. I telefoni erano sotto controllo, e se qualcuno si azzardava a parlare di ciò che stava succedendo la comunicazione veniva subito interrotta.
Da un giorno all’altro lo zucchero fu razionato, e in seguito la stessa sorte toccò a burro, farina, pane, benzina, vestiti, carne di manzo e di maiale, sale, sapone e caffè. Dopodiché furono introdotti l’obbligo di circolare con un documento d’identità e il coprifuoco dopo le otto di sera.
Se la resa della Danimarca fu quasi immediata, i norvegesi invece riuscirono a resistere per qualche mese. Il governo si rifugiò a Londra con la famiglia reale, e fu rimpiazzato da un regime fantoccio asservito ai nazisti.
Hitler invase la Norvegia per assicurarsi le forniture di ferro che dalla città svedese di Kiruna transitavano attraverso il porto norvegese di Narvik. L’invasione della Danimarca doveva invece servire a controllare le vie di trasporto verso la Norvegia, a sfruttare carne e latticini danesi e, in seguito, a creare un prototipo di società nazista in miniatura da sbandierare agli occhi del mondo: ecco come sarebbe stato il Terzo Reich vagheggiato da Hitler.
Le sorti della Svezia seguirono un corso completamente diverso. Per via dell’occupazione, i nazisti dovevano mantenere un contingente militare fisso in Norvegia. Nell’estate del 1940 Hitler siglò il primo grande accordo con la Svezia sul transito di truppe e materiale bellico, che avrebbero raggiunto la Norvegia attraverso le ferrovie svedesi.
Malgrado il primo ministro Per Albin Hansson avesse dichiarato che nessuna concessione sarebbe stata fatta alla Germania finché in Norvegia si continuava a combattere, il governo diede il via libera a ulteriori transiti. Treni su treni attraversarono la Svezia per recapitare armi, vettovaglie e truppe fresche sul fronte norvegese. Il 18 giugno dello stesso anno Hansson annotò sul suo diario: «E così la nostra preziosa neutralità, mantenuta fino allo stremo, si è infranta di fronte alla consapevolezza dell’assurdità, nella presente situazione, di assumersi il rischio di una guerra».
La resistenza danese
In Danimarca la strategia politica si incentrò sul fronte comune tra socialdemocratici e conservatori per mantenere il maggior margine di indipendenza possibile. I gruppi nazionalisti di destra e i comunisti, di fatto esclusi dai giochi, fondarono movimenti di resistenza che passarono alla lotta armata contro i nazisti. Ponti, strade e ferrovie venivano fatti saltare in aria per ostacolare l’avanzata tedesca: le azioni di sabotaggio furono così tante che i tedeschi finirono per affibbiare alla Danimarca l’etichetta di «territorio ostile». Anche la resistenza civile si fece sempre più intensa. Quando i nazisti decidevano di rifarsela sulla popolazione danese sguinzagliavano un commando a eliminare gli esponenti più in vista della resistenza, secondo la pratica detta clearingmord («rappresaglia»). Oppure tagliavano i rifornimenti di acqua o corrente elettrica.
Gli abitanti di Copenaghen si riunivano per cenare intorno ai falò accesi nei giardini e andavano a rifornirsi d’acqua ai laghi che costeggiano parte del centro città. I comunisti, prima considerati dei pericolosi sovversivi, furono riabilitati e ribattezzati «radiser», ovvero «ravanelli». In cima erano tutti rossi, non ci pioveva, ma una volta cavati dal suolo danese si rivelavano biancorossi come la bandiera nazionale, vale a dire dei bravi patrioti. Come ho già detto, «radiser» è una delle parole ricamate sulla mia tela danese, così come «clearingmord».
Ricamo dell’occupazione
Più cose imparavo sull’occupazione danese, più chiaro diventava il senso di quel cimelio da mercatino. Dopo qualche ricerca scoprii che lo schema era in vendita già dal 1945, con il nome di «Kapitulationstæppet» («tela della capitolazione») o «Besættelsebroderiet» («ricamo dell’occupazione»). A idearlo era stata l’artista tessile Louise Puck, che a quanto pare aveva perso tre figli attivi nella resistenza, mentre a metterlo in commercio fu la ditta di ricami di Clara Wævers a Copenaghen. Riscosse un successo clamoroso, e continuò a vendere in centinaia di migliaia di esemplari fino alla fine degli anni Settanta. Centinaia di migliaia di donne danesi hanno quindi trascorso mesi e mesi con ago e filo, ricamando con cura ciò che il loro paese aveva attraversato.
Louise Puck aveva tratto ispirazione dai cosiddetti «navneklude», gli «imparaticci» su cui le ragazze si esercitavano ricamando lettere, parole, simboli e cornici decorative, secondo una tradizione risalente al XVIII secolo. La Kapitulationstæppet trae quindi origine dalla storia del ricamo danese, e unisce le ricamatrici di ogni tempo in un’ideale sorellanza creata dal rituale della tradizione.
Ma allo stesso tempo rappresenta una novità assoluta. Louise Puck ha innestato un forte contenuto politico su un’antica forma popolare. La tela presenta una netta distinzione tra bene e male: il male domina il lato sinistro ed è reso in nero e grigioverde, il colore della decomposizione e delle uniformi della Wehrmacht. Sul lato destro invece viene utilizzata una sfumatura di verde più chiara. Ma nella parte del «bene» a predominare sono soprattutto i colori della bandiera danese, il rosso e il bianco, con qualche tocco di blu – lo stesso del vessillo britannico. Un ricamo a forti tinte nazionaliste, quindi, che esprime il senso di solidarietà che venne a crearsi sotto il giogo della violenza nazista.
L’eccezione danese
Nell’autunno del 1943, quando si venne a sapere che gli ebrei danesi sarebbero stati costretti a indossare la stella di Davide, re Cristiano dichiarò che in quel caso l’avrebbero portata tutti. Anche sotto questo aspetto la Danimarca ha una storia a sé. In Norvegia le autorità catturarono tutti gli ebrei su cui riuscirono a mettere le mani, per poi caricarli su una chiatta con destinazione Auschwitz. Dei 772 deportati ne sopravvissero solo 34. In Danimarca gli ebrei erano parte integrante della comunità nazionale.
Quando si sparse la voce che sarebbero stati deportati, i vescovi danesi scrissero una lettera di protesta che venne letta dal pulpito di tutte le chiese del paese. Un cittadino di Copenaghen di nome Harald ne scrive in una lettera indirizzata alla madre: «Siamo molto preoccupati per le persecuzioni contro gli ebrei, che sembrano aver suscitato un’ondata di indignazione in tutta la città. Domenica sono andato a messa con Tut alla chiesa di St. Johannes, e dopo il sermone il prete ha letto la lettera di protesta dei vescovi. Quando ha finito tutta la congregazione si è alzata in piedi e ci è rimasta, in silenzio.»
La resistenza danese prese contatti con la Svezia, che accettò di accogliere 7.500 ebrei. Nell’ottobre del 1943 fuggirono in barca, di notte, attraverso l’Öresund, e in molti casi i vicini e le autorità comunali si preoccuparono di fare la guardia alle loro case, perché potessero ritrovarle intatte una volta tornati.
Ricordi dolorosi ed esperienze cruciali, quindi, portati alla luce attraverso un ricamo fatto di punto croce e di tempo femminile. Ricamare la Kapitulationstæppet richiede mesi di lavoro. Qualche anno fa l’artista Sisse Hoffmann ha deciso di documentare tutto il processo: «Guardo lo schema, conto i punti, passo il filo, lo fermo, cambio colore; riconto, disfo i punti, conto di nuovo, ripasso il filo, guardo lo schema… Un susseguirsi di azioni ripetute che mi legano alle innumerevoli donne che hanno ricamato e ricamano in tutto il mondo».
Così ogni punto, ogni movimento si apre con un ago che passa attraverso la tela in segno di solidarietà. Così quel ricamo è diventato l’elaborazione collettiva di un trauma. Come si sentivano le donne danesi mentre ricamavano il nome di Hitler? A cosa pensavano? Il terrore e gli stenti del passato potevano forse stemperarsi nel grigioverde, nel bianco e nel rosso?
Promemoria dell’esistenza
Credo che il mio esemplare della Kapitulationstæppet sia stato realizzato subito dopo la guerra. Non soltanto i colori sono sbiaditi, ma la donna che lo ha ricamato non doveva passarsela molto bene. Una volta finita la matassina di filo bianco per lo sfondo non poteva permettersene un’altra, e aveva rimediato con un filo più scuro. La prova delle sue difficoltà, ma anche della sua determinazione, è ora visibile nella nuvola grigiastra che aleggia sul ricamo, un racconto nel racconto, una traccia della vita e della quotidianità di quella ricamatrice sconosciuta. È un’imperfezione che mi suscita un senso di tenerezza, e rende il ricamo ancora più prezioso.
Malgrado le centinaia di migliaia di schemi venduti, di queste tele si sono conservati soltanto pochissimi esemplari. Gli esperti del settore ne hanno contati una ventina negli archivi dei musei danesi. Le tante ore dietro a ciascun ricamo, il tentativo di fissare sulla tela un momento storico e un mito nazionale, di rivivere con ago e filo gli anni della guerra – in poche parole, di elaborare il trauma – tutto questo non è ritenuto abbastanza prezioso, perché si tratta di un lavoro fatto dalle donne.
Sono davvero felice di aver adocchiato quella tela in un giorno di fine estate. Ogni volta che la guardo, davanti a me si aprono centinaia di porte: sul passato, sul dolore e il coraggio di chi l’ha creata, sulla tradizione e il piacere del ricamo e su quella donna che per ore e ore ha lavorato di ago e filo per realizzarlo. Perché in fondo cos’è un ricordo? Che cos’è un ricamo? Un promemoria della nostra esistenza.
Traduzione di Alessandra Scali
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