Costantino Marmo, direttore del Centro dedicato a Eco, racconta come sarà la biblioteca Eco, fisica e virtuale. Conversazione sulla bibliofilia di Eco, sul suo tesoro fatto di libri rari ma anche di fumetti e romanzi pop. E poi sulla menzogna, la “guerriglia semiologica”, il futuro della semiotica
- L’università di Bologna ottiene in comodato d’uso per 90 anni i 35mila volumi della biblioteca moderna di Umberto Eco. Costantino Marmo, professore di semiotica, allievo di Eco e direttore del Centro a lui dedicato, seguirà la nascita della “Biblioteca Umberto Eco”.
- «Oltre al luogo fisico, vogliamo creare una biblioteca virtuale dei libri annotati di Eco». Per lui i libri dovevano essere vissuti, annotati. Ora i suoi appunti diventano un nuovo tesoro.
- Eco era un bibliofilo, amava la carta scrocchiante. Nella sua galassia di libri c’era spazio per tutto, dai saggi ai romanzi rosa e ai fumetti.
Costantino Marmo insegna Semiotica e Storia della semiotica all’università di Bologna. Dirige il Centro Internazionale di Studi Umanistici“Umberto Eco”. Si occuperà dei progetti dell’università di Bologna che renderanno accessibili al pubblico e agli studiosi i documenti e i volumi contenuti nella biblioteca moderna e nell’archivio di Umberto Eco, che saranno affidati all’università dal Mibact.
Non è stato facile arrivare a un accordo sulle sorti della biblioteca di Umberto Eco. Come mai?
Eco non ha lasciato disposizioni per la sua biblioteca, che è assai complessa. C’è una parte di libri antichi e rari che è di gran valore economico, e sui quali, da bibliofilo, ha investito. Tra questi, più di mille pezzi su temi come quelli de I limiti dell’interpretazione: l’esoterismo, o, come lo chiamava lui, il «pensiero pirla».
Cos’è il pensiero pirla?
Il pensiero della cospirazione, dell’esoterismo a tutti i costi. Ne Il pendolo di Foucault, Eco mostra come persino la lista della spesa possa essere sovrainterpretata in forma paranoica.
Cosa pensava Eco dei complottisti odierni?
Lui ha sempre ripudiato la dietrologia, e con essa complottisti e No-vax. La sua invettiva sugli «imbecilli» che prendono parola in rete deriva proprio dalla constatazione che chiunque possa dire la propria. Anche il più pirla.
Oggi va di moda il concetto di fake. Eco definì la semiotica «teoria della menzogna».
Con quella formulazione, negli anni Settanta, intendeva dire che dal suo punto di vista è rilevante ciò che serve per mentire. Poi si è corretto: ha sostituito “mentire”, e cioè voler far credere il falso, ingannare, con “dire il falso”. Si può mentire anche dicendo il vero: il primo a sostenerlo fu Sant’Agostino. La semiotica studia tutti i testi che possono dire il falso; non vuol dire che sia compromessa con il falso. La prospettiva echiana è in polemica nei confronti della filosofia analitica, che elabora una semantica fondata sul riferimento e finalizzata al valore di verità.
Eco non inseguiva la verità?
In realtà ne era persino ossessionato. Diceva: «Dobbiamo far ridere la verità». Il nome della rosa – con la ricerca del colpevole – può essere letto come un tentativo di far emergere la verità.
Sappiamo che i volumi più antichi saranno conservati alla Braidense di Milano, e che circa 35mila libri - l’archivio moderno - arriveranno in comodato d’uso all’università di Bologna, che sta progettando la biblioteca Eco in piazza Puntoni. Eco intendeva tutto questo come un corpo unico?
Sì, nel senso che usava l’una o l’altra biblioteca in base ai lavori che stava facendo. Fisicamente, le due parti erano in posti diversi della casa: la biblioteca dei rari aveva una sua collocazione in una stanza unica. Ma la ragione era merceologica, per la preziosità dei manoscritti. C’era in lui questo aspetto, noto a pochi: il piacere del libro raro. Eco era membro della società di bibliofilia, per la quale ha fatto diverse pubblicazioni. Una in particolare rivela la sua passione smodata: La memoria vegetale, che fa riferimento alla cellulosa, e a quell’aspetto che distingue il vero bibiliofilo dagli altri come me. Io sono interessato ai contenuti di un libro. Lui amava l’oggetto libro, il piacere epidermico che la carta procura. Amava la sua edizione de Le cronache di Norimberga, del XV secolo.
Lei dice che a lei interessano i contenuti, ma per la semiotica anche un oggetto parla.
Senz’altro: un libro inteso come oggetto fisico può essere analizzato semioticamente come testo, ha una sua rilegatura, una sua grammatica compositiva. Ma io sono interessato a quel che viene detto, in un libro. Quando faccio le mie ricerche, recupero in digitale manoscritti medievali, li consulto via rete. Un bibliofilo è interessato a possedere il libro.
Nell’era digitale, dove tutto è infinitamente riproducibile, per Eco l’oggetto analogico, in quanto unicum, rimaneva insostituibile?
Più era raro, più aveva valore. Quando andavo a casa sua, se aveva comprato qualcosa che per lui era bello, teneva a mostrarmelo. Provava un piacere fisico nello sfogliare la carta scrocchiante. Uno dei nomi che dava alla biblioteca antica era “curiosa”, e amava passarvi tempo. Il suo terzo romanzo, L’isola del giorno prima, è imbibito di citazioni da testi del Seicento che lui possiede: il lavoro sulle sue fonti va condotto nella sua biblioteca.
Eco amava i libri preziosi, ma se parliamo di contenuti, uno dei suoi meriti è aver restituito dignità alla cultura popolare. Per esempio, ai fumetti. Nella sua biblioteca aveva albi?
Certo! Buona parte erano nella sua casa di Monte Cerignone. Tra anni Ottanta e Novanta girava spesso coi fumetti sotto braccio. Amava le collezioni di Lanciostory, con disegnatori per lo più sudamericani tradotti in italiano. Ne aveva anche di più ricercati, come Art Spiegelman.
E poi romanzi? Cos’altro, in questi 35mila volumi della biblioteca che nascerà?
Eco aveva una collezione pazzesca di romanzi, persino rosa; del resto analizzava con gli stessi strumenti Dante e Topolino. E poi i libri di studio. Una biblioteca di testi medievali fornita, da San Tommaso, per lui ineguagliabile, a Guglielmo di Ockham, che invece non amava, visto che sta alle origini della filosofia analitica. Nelle postille a Il nome della rosa, Eco confessa di aver avuto la tentazione di scegliere Guglielmo come protagonista ma di aver optato per “un suo collega francescano” perché l’antipatia ebbe il sopravvento. Io mi sono laureato su Ockham e ho cercato invano, per una vita, di farglielo apprezzare.
Qual è la cifra che accomuna questa galassia di testi?
Sono così tanti che neppure lui li ha letti tutti. La cosa interessante è che lì ci sono i libri sui quali studiava. E - lo ha teorizzato in Come si fa una tesi di laurea - per lui i libri andavano sottolineati, usati, bisognava fargli le “orecchie”. Così faceva: rimarcava, segnalava i passi che intendeva citare così da ritrovarli. Annotava. Gli appunti parlano di lui e della sua opera, sono una risorsa per la ricerca. Con il direttore della biblioteca universitaria condividiamo un’idea: creare una biblioteca virtuale dei libri annotati di Eco.
Ci si potrà muovere sia nello spazio fisico che in quello virtuale della biblioteca?
Ci proponiamo di ricostruirne la disposizione originale, e si potrà “consultarne” la topografia anche senza starci. Del resto ci vorranno anni prima che sia del tutto pronto il luogo fisico. Eco aveva un catalogo topografico della sua biblioteca, aveva predisposto un database, su cui potremo basarci per costruire la biblioteca virtuale.
Abbiamo parlato dei libri che Eco comprava, studiava, scriveva. Verso la fine della sua vita ha anche contribuito a fondare una casa editrice, la Nave di Teseo.
È stata una scelta dettata da una ragione anzitutto politica. Riteneva che vi fosse quasi un monopolio, nell’editoria: quando Berlusconi acquisì Einaudi, Mondadori e parte del gruppo Rcs, nel 2015, Eco e molti autori e dirigenti della scuderia Bompiani si rifiutarono di lavorare per Berlusconi. Così nacque la Nave.
Eco era un intellettuale engagé?
Assolutamente sì. Negli anni Sessanta teorizzò la guerriglia semiologica: l’idea era che nelle comunicazioni di massa - all’epoca giornali, tv e radio, ma il concetto è attuale nell’era di internet - le masse dovessero essere in grado di padroneggiare con strumenti critici adeguati il blob di informazioni, per non rimanere vittime delle dinamiche di potere che dominavano i media. La guerriglia semiologica è una forma di resistenza intellettuale al potere: Eco riteneva che fosse compito dell’intellettuale fornire strumenti per reagire contro dinamiche comunicative coerenti con progetti di dominio o oppressivi.
Quella di Eco è un’eredità ingombrante. In che condizioni ha lasciato la disciplina dopo di lui?
Quando conobbi Eco la semiotica era molto di moda: ci si illudeva che potesse aiutare a spiegare qualsiasi cosa. La semiotica è uno strumento molto potente. Ma rischia di diventare esoterica: se non si ha una preparazione adeguata, suona come un linguaggio per iniziati. Adesso, da disciplina di moda, sta diventando demodé. Per gli eredi di Eco la vita non è facile: bisogna mettere da parte ogni velleità di competere con lui, che era estremamente prolifico (basti pensare che sfornava una bustina di Minerva al giorno) e che rimane un unicum per vastità di interessi. Eco ha sempre rifiutato l’idea di aver costituito una scuola, ci ha sempre proibito di definirci parte di una scuola bolognese. Al contempo, era aperto alle contaminazioni, costruiva ponti con altre discipline (dalla linguistica alla critica cinematografica), lanciava tanti semi e ognuno di noi ne ha coltivati alcuni.
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