Mito famosissimo, il Graal è al centro di innumerevoli leggende medievali. La vicenda di questa coppa misteriosa s’intreccia con una storia molto più antica, che in questo caso risale alle origini del cristianesimo. In seguito, dopo il medioevo il Graal sembra dimenticato, ma riappare negli ultimi due secoli e s’impone di nuovo, al centro di raffigurazioni artistiche e opere musicali, esoterismi e occultismi inquietanti, fanatismi politici e religiosi, fino a entrare nella cultura di massa.

Ma cos’è il Graal? Il calice di Cristo oppure la coppa dell’abbondanza, un oggetto soprannaturale o una realtà immateriale e inafferrabile? E dov’è? Chi può comprenderlo e raggiungerlo? Le risposte del cinema e della letteratura di grande consumo – dall’indimenticabile Indiana Jones a Robert Langdon, il professore incolore e monocorde del Codice da Vinci – sono tante e guardano al passato (quello recente, per Dan Brown, fino a un’accusa di plagio).

L’incertezza

Nemmeno gli specialisti sono concordi. L’incertezza avvolge innanzi tutto le origini della coppa: pagane o cristiane? Il latinista Bruno Luiselli – che ha molto studiato le letterature celtiche e germaniche tra il IV e l’VIII secolo (La formazione della cultura europea occidentale, Herder) – ne ha ricostruito nel 2003 con finezza e in modo convincente la nascita e gli esiti fino a Wagner. E ora il filologo tedesco Matthias Egeler (Il Santo Graal, il Mulino) dal medioevo estende l’indagine alle fantasie contemporanee mescolate alle religiosità alternative, spesso estranee se non ostili al cristianesimo.

Pagana e cristiana è l’antica leggenda arturiana, sulla quale è destinata a innestarsi quella della coppa. Arthur, che si trasforma nel re Artù della Tavola rotonda, è in realtà un eroe storico della Britannia che all’inizio del VI secolo guida la resistenza contro gli invasori sassoni. I tratti leggendari hanno radici pagane: il sovrano viene ferito a morte e trasportato per curarsi nell’isola di Avalon, il paradiso celtico. Poi, a capo dei re britanni, Arthur vince i pagani sassoni con l’aiuto di Cristo e della Vergine, e questa cristianizzazione della storia e del mito richiama l’età di Carlo Magno, con le campagne militari contro i sassoni e il ritorno dell’impero in occidente.

Il ciclo bretone e gallese

Di nuovo pagana e cristiana è l’origine di due leggende popolari che contengono molti motivi poi caratteristici del lussureggiante ciclo cresciuto progressivamente intorno al Graal: quelle del bretone Peronnik e del gallese Peredur. Nella prima si affaccia la ricerca di una coppa d’oro e di una lancia di diamante. E una lancia e un bacile compaiono anche nella seconda. In entrambe vi sono anche elementi cristiani, in parte originari.

Ma fondamentali per lo sviluppo della leggenda del Graal sono due particolari nella narrazione della morte e della sepoltura di Cristo secondo l’evangelista Giovanni (19, 28-42), il più storico e misterioso. Per affrettare la morte dei crocifissi i soldati spezzano loro le gambe: «Venuti però da Gesù, vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua». Ecco dunque la lancia cristiana.

Entra allora in scena Giuseppe di Arimatea, «discepolo di Gesù, ma di nascosto per timore dei giudei», il quale «chiese a Pilato di prendere il corpo di Gesù. Pilato lo concesse. Allora egli andò e prese il corpo di Gesù» insieme a Nicodemo, un notabile giudeo.

Gli apocrifi

In segreto seguaci di Cristo, i due ebrei – ma soprattutto Giuseppe, uomo ricco e membro del sinedrio secondo i vangeli sinottici (Matteo, Marco, Luca) – diventano più tardi, tra il IV e il VI secolo, protagonisti di due scritti apocrifi greci intitolati Atti di Pilato (o Vangelo di Nicodemo) e Dichiarazione di Giuseppe d’Arimatea. Entrambi sviluppano i racconti evangelici immaginando l’imprigionamento di Giuseppe da parte dei giudei e la sua liberazione miracolosa. Il primo apocrifo arriva a dare anche un nome al soldato che colpì il fianco di Gesù crocifisso: è Longino, raffigurato nel 1640 da Bernini con in pugno la lancia a San Pietro, dove si conserva la reliquia donata dal sultano Bayezid II a papa Innocenzo VIII nel 1492.

Al rilievo assegnato in oriente a Giuseppe di Arimatea si aggiungono nei secoli VIII e IX la liturgia e l’arte, tanto in oriente quanto in occidente. Un’omelia bizantina accosta il calice della messa al «recipiente che ricevette il sangue sgorgato dall’immacolato fianco trafitto», e nell’iconografia della crocifissione appaiono personaggi che raccolgono il sangue di Cristo.

Alla lancia del Vangelo di Giovanni si aggiunge dunque la coppa, evocata nel cuore della Francia medievale da liturgisti che spiegano la messa ricordando la pietà dell’uomo di Arimatea che provvede alla sepoltura di Cristo. Questa coppa è il Graal, un «catino (o piatto), in cui il Signore cenò con i suoi discepoli», apparso nel 720 in visione a un eremita della Britannia, che ne scrive la storia, perduta: «Gradalis o gradale è detta in gallico la scodella larga e profonda» spiega etimologicamente il monaco Elinando, quasi mezzo millennio più tardi.

Avalon

E proprio in quest’epoca, verso la fine del XII secolo, Robert de Boron, scrive Il romanzo della storia del Graal. Nel testo, destinato a una fortuna immensa e a infinite variazioni, Giuseppe d’Arimatea – incarcerato dagli ebrei e al quale Cristo affida questo «vaso prezioso e grande» che lo nutre nella prigionia – è liberato dall’imperatore Vespasiano e giunge nell’estremo occidente.

Dove? In un’isola dell’Inghilterra meridionale, Avalon, «che i celti pagani di Britannia ritenevano essere il luogo d’ingresso nell’altro mondo» osserva Luiselli. Qui era stato trasportato, ferito a morte, re Artù, la cui storia viene contemporaneamente rielaborata e cristianizzata dal gallese Goffredo di Monmouth. E proprio ad Avalon – l’antica isola ora unita alla terraferma e chiamata Glastonbury – s’insedia una comunità monastica che diviene un importante centro religioso e culturale, dissolto nel 1539 da Enrico VIII.

Le vicende letterarie della coppa miracolosa sono un intreccio fantasmagorico di testi che giungono dall’Inghilterra e dalla Francia settentrionale. Alla fine del XII secolo nasce il Perceval di Chrétien de Troyes, incompiuto. E quasi subito le sue Continuazioni corrono per tutta l’Europa occidentale e settentrionale – in Provenza, Italia, Spagna, Portogallo, Germania (con il lunghissimo Parzival di Wolfram von Eschenbach), Scandinavia – e si combinano con la leggenda, altrettanto diffusa, di Artù, il rex Arturus raffigurato nel 1156 nel grande mosaico pavimentale della cattedrale di Otranto.

La cristianizzazione della leggenda

Albert Béguin nel 1958 riassumerà che il Graal rappresenta insieme «Cristo morto per gli uomini, il calice della sua ultima cena (cioè la grazia divina concessa da Cristo ai suoi discepoli), e infine il calice della messa, che contiene il sangue reale del Salvatore. La tavola dove è collocato il vaso è dunque, secondo questi tre piani, la pietra del Santo sepolcro, la tavola dei dodici apostoli e infine l’altare dove si celebra il sacrificio quotidiano».

Alla fine del medioevo la leggenda, con il trascorrere del tempo sempre più cristianizzata ma che mantiene le componenti pagane, diviene un simbolo cattolico dell’eucarestia, mai peraltro ripreso dalle gerarchie ecclesiastiche. Con la Riforma protestante, che cancella il sacramento, perde invece importanza, e ci si potrebbe spingere ad affermare – scrive Egeler – «che Lutero sia stato l’affossatore del Graal».

Sembra finita la storia, ma dopo un’eclissi di tre secoli il Graal riappare nel romanticismo europeo: nel 1856 grazie a William Morris, uno dei fondatori del socialismo britannico, e dal 1859 con Alfred Tennyson, il principale poeta dell’età vittoriana. La ricerca della coppa – pur raffigurata con successo soprattutto dal preraffaellita Dante Gabriel Rossetti e da Edward Burne-Jones in arazzi, affreschi e dipinti dal fascino profondo – è pervasa però dall’inquietudine dei tempi nuovi.

E durante l’ascesa politica della Germania, è soprattutto grandiosa e multiforme la visione del Graal nell’epopea wagneriana, dal Lohengrin (1845-1848) all’ultima opera del compositore, il Parsifal (1877-1882). Mirabile colonna sonora di un crescendo che attraversa la teosofia di Rudolf Steiner e arriva alle follie occultiste di Otto Rahn, il protetto di Himmler, fino agli stravolgimenti religiosi di oggi. Coglie dunque nel segno Jung quando vede nel Graal «la pienezza interiore che gli uomini hanno sempre cercato».

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