-
I personaggi che devono ancora iniziare a vivere sono il punto forte dell’autrice di Le cose che ci salvano
-
Con la storia che gira intorno alla gentrificazione, il libro a suo modo si inserisce nel dibattito su Milano
-
Se è vero che Milano è al crocevia fra diventare come Londra (cara sporca invivibile) o come Vienna (bella funzionante inclusiva), le vicende di Gea mostrano lo scenario viennese, uno scenario di fantasia ma comunque rincuorante
Ero al liceo, e in quel periodo avevo due amici con cui trascorrevo tutti i pomeriggi: una viveva a Corvetto, l’altro in Brera. Una aveva una madre separata e lavoratrice che sembrava essere ovunque sempre, dietro ai muri e alle porte, l’altro abitava un’ala di un’enorme casa che era sempre vuota. Sembrava già che vivesse da solo, ma diceva (a diciassette anni): magari mi trovo un lavoretto e mi prendo una topaia a Lanza.
Anche se non conoscete Milano, questi sono luoghi facili da immaginare: Corvetto è un famoso quartiere popolare, si trova in fondo a una zona che ha vissuto un certo momento di gloria come hub jihadista, prima che venisse parzialmente gentrificata. Poco più in là c’è il Parco delle Rose, anche conosciuto come supermercato della droga. Non è così male come sembra da questa descrizione, Corvetto: non lo è oggi e, per noi ragazze che l’abbiamo frequentato fin da piccole, non lo era neanche allora. Però questi sono i fatti. Brera, d’altro canto, è Brera. È dove vivono i ricchi veri mentre i nuovi ricchi fanno i cafoni a Citylife.
I nostri pomeriggi si alternavano a casa di una e dell’altro. Il pessimo hashish ce lo procuravamo non a Corvetto ma dall’altra parte, nella terra dell’alta borghesia dove non c’erano i genitori. Questa assenza di genitori, soprattutto assenza dei loro corpi – padri che ruttano e madri che piangono – è stato per me il primo linguaggio del privilegio.
Presenza muta
Nei romanzi di Lorenza Gentile – è appena uscito il quarto, Le cose che ci salvano, Feltrinelli – la famiglia è questa presenza muta, come nella casa di Brera. Non è mai in scena, non proprio, è eterea, tutt’al più eccentrica, eppure è la forza che fa muovere tutto, storie diverse e spesso page-turner, romanzi costruiti con molta attenzione alla trama. Ho imparato con il tempo che l’assenza apparente della famiglia in quelle case, anche una certa formalità e cortesia nei modi familiari che invidio ancora adesso – da noi ci si rivolge l’uno all’altro con quella che gli inglesi chiamano shortness, un eufemismo per dire che siamo di norma bruschi e indelicati – erano solo un piccolo aspetto dell’affare complessivo che si fa a nascere in quei contesti.
In Teo (Einaudi Stile Libero), un bambino di otto anni pianifica di suicidarsi per incontrare Napoleone morto che gli svelerà il segreto per far smettere di litigare i genitori (ma anche nel litigare sono eterei, la scena è occupata dal mondo interiore del bambino). È tutto molto giocoso, tanto lieve che si può raccontare la sinossi senza mai usare la parola suicidio. In effetti si finisce il libro con un piacevole effetto what the fuck (piacerebbe anche a Nanni Moretti).
Una dark comedy, una fiaba, un qualcosa di un po’ francese. Anche La felicità è una storia semplice (Einaudi Stile Libero) tratta il tema del suicidio: questa volta un adulto, già con la corda al collo, viene richiamato nel mondo dei vivi dalla nonna, per sbrigare una pratica di eredità. La famiglia rovina (e questa non è una novità) ma la famiglia richiama anche dalla morte. E questa fiducia nella famiglia che salva per me è una visione di classe: si sa che nella nostra erotica noia medio-borghese la famiglia rovina e basta (crea i famosi traumi).
Dopo quel periodo di vicinanza simbiotica, noi tre – io, il ragazzo col cognome importante e la ragazza di Corvetto – non ci siamo più visti: il liceo, con tutti i suoi difetti, è l’unico periodo della vita in cui si mischiano davvero le carte delle classi sociali, che in Italia sono rigide quanto in Inghilterra, ma che qui sono un tabù, una cosa di cui non si parla. Qui si parla semmai di soldi, ma i soldi non fanno la classe sociale, non solo e non più.
Città per pochi
Il romanzo di Lorenza Gentile ha come tema secondario la città che diventa per pochi e per ricchi, che crea delle gated communities, dei compartimenti stagni per cui se vivi in molte zone di Milano tra poco non dovrai mai più vedere un povero (in una città in cui migliaia di persone ogni giorno mangiano da Pane Quotidiano).
Il libro è ambientato in una via non nominata ma a cui l’autrice ha fatto riferimento su Instagram. Composta da case di ringhiera ristrutturate da interior designer, nella realtà è una via “signorile” da almeno quarant’anni.
Nel mondo del romanzo viene raccontata una forte fase di gentrificazione, tanto che leggendo pensavo che fosse ispirato a qualche comune alle porte di Milano, come quel film con Checco Zalone, Che bella giornata (girato a Robecchetto con Induno (Mi) e in una pittoresca Carate Brianza (Mb)). La protagonista Gea, senza passato, appare un giorno nella via e si ferma ad abitare nella casa ereditata dalla nonna appena morta. Poi si capisce che il passato c’è, e questa è la più riuscita finora delle famiglie di Gentile, una famiglia di finemondisti, cioè quei fuori di testa che credono nella fine del mondo imminente e in tutti i complotti, si cibano solo di quello che producono, hanno un rifugio sotterraneo e un piano di sopravvivenza, e soprattutto sono isolati, fanno scuola da casa, non sanno niente del mondo.
Questa invenzione permette all’autrice di creare una protagonista candide che seguiamo in questa nuova vita cittadina, da quello che fa per vivere (piccole riparazioni domestiche, un’attività lucrativa ora che non ci sono più i tuttofare) alle relazioni che crea (con alcune donne del quartiere, dalla mamma single che forse non può più permettersi di vivere lì alla gestora di un bar fuori moda, minacciato dal poké). Ma questa famiglia finemondista, quasi settaria, permette anche di fare un ragionamento che corre sotto i fili della commedia, su cosa vuol dire crescere “protetti”, schermati dal mondo, con una famiglia ingombrante. Piangere e ruttare non sono l’unico modo di essere genitori asfissianti.
Dibattito su Milano
Con la storia che gira intorno all’economia di quartiere e alla gentrificazione, il libro a suo modo si inserisce nel più recente dibattito su Milano. Ma mentre tutto il dibattito su Milano ormai mi strazia, questo libro invece mi ha divertito. Se è vero che Milano è al crocevia fra diventare come Londra (cara sporca invivibile) o come Vienna (bella funzionante inclusiva), le vicende di Gea mostrano lo scenario viennese, uno scenario di fantasia ma comunque rincuorante.
Dopo Le piccole libertà (Feltrinelli), in cui è una zia eccentrica a richiamare la protagonista a un’avventura parigina boho-chic, salvandola da un’esistenza che sembra già scritta in una noia medio-borghese (lo stage, il fidanzato), in questo romanzo il tema della famiglia ritrova delle note un po’ più cupe, che convivono bene con la voce ironica e le vicende spesso tenere.
I personaggi che devono ancora iniziare a vivere sono il punto forte dell’autrice, insieme all’azione, che spinge sempre in avanti e si concentra sulle relazioni fra le persone. Pur restando nella forma del romanzo, credo che questo dell’origine e della classe sia un tema che Gentile affronterà più direttamente prima o poi. È chiaramente un materiale molto fertile, il materiale da cui nascono tutte le trame, ed è soprattutto lì che guarda con curiosità il lettore.
© Riproduzione riservata