Si dice che i segreti di un Autore siano custoditi dai suoi inizi. Voi studiatene gli esordi e per larghe linee avrete già indovinato quello che penserà dopo. Insomma: dimmi cosa scrivi per prima e ti dirò chi sei. Certo, questa formula può peccare qualche volta per troppa perentoria rigidità. Qualche volta, però. Non sempre. E comunque non per Giovanni Sartori. Sartori si rivelò per come lo abbiamo conosciuto in seguito fin da quando, giovane incaricato di Storia della filosofia moderna, licenziò nel 1955 e nel 1956 due corsi su Benedetto Croce (che poi, quarant’anni dopo, prenderanno la veste di volumi allorché gli allievi ne vollero festeggiare il settantesimo compleanno).

Come avevano ragione i discepoli di tirare dai fondali della sua produzione proprio quei due corsi lì! E come tornano utili ora che ne ricorre il centenario della nascita! Non è certo un caso che verso la fine, ad uno sguardo retrospettivo, egli volle riassumersi così: «La colonna portante di tutti i miei studi deve molto al mio esordio filosofico».

Tutti i mezzi 

E dunque già nel confronto con Croce ci troviamo a tu per tu con un Sartori che più Sartori di così non si può. Intanto per lo stile: vigoroso, serrato, colorito. E poi per il contenuto che, arpionato al gancio del liberalismo empirico di stampo anglosassone, eccitava il suo dispetto per un altro liberalismo; per il liberalismo che – glorioso – correva per le nostre contrade in arme e battaglie precisamente contro quell’empirismo che Croce, con un violento manrovescio, atterrava «come uno dei prodotti più scadenti della civiltà europea».

Stando così le cose, era destino che Sartori mettesse in scompiglio proprio la tradizione di pensiero che in Italia era assistita dai numi più propizi, ed era naturale che pur tra la fiorita dei riconoscimenti formali egli vi insinuasse il cardo delle critiche più pungenti. Pungenti per esempio furono le riflessioni con le quali infilzò la concezione della Storia come Storia della libertà che così tante benemerenze aveva procurato a Croce e che invece lui giudicava inutilizzabile agli effetti di una teoria autenticamente liberale.

Perché? Perché, vedete, dire che la storia è storia della libertà significa dire che le vicende umane non sono causalisticamente determinate né deterministicamente orientate; per cui esse conservano quel tremolio di incertezza mobile che le sottrae alla presa di schemi rigidi e prefissati. Bello, non si dice di no.

Ma, di grazia – faceva notare Sartori – che cosa ha a che vedere tutto ciò con le esigenze del pensiero liberale? Concepire l’avventura umana come una specie di grande cavalcata sul possibile vale quanto dire che la storia non è trattenuta da nulla e che perciò essa è libera nel suo dispiegarsi.

Già: ma alla dottrina politica del liberalismo non interessa la libertà della storia; importa invece la libertà nella storia, e precisamente la libertà degli individui che vogliono sapere come e grazie a quali ritrovati giuridici i loro beni, la loro vita e i loro diritti riescono affrancati dalla cupidigia del potente di turno.

Sennonché proprio quegli individui e di rimbalzo anche quei ritrovati scapitano assai nella considerazione di Croce per il quale «un uomo è libero anche se è in prigione. Il che», osservava Sartori, «è vero se si parla di libertà morale, della nostra libertà interiore. Ma»,  aggiungeva, «il problema del liberalismo è la libertà “esterna”, è di impedire che io sia messo in prigione a discrezione di un despota».

Di impedirlo, si capisce, con tutti i mezzi che l’intelligenza e la buona volontà sanno escogitare. Tutti i mezzi. Nessuno escluso. Compresi perciò quei dispositivi tecnico-giuridici che sostanziano il liberalismo politico ma sui quali Croce poggiava uno sguardo diffidente, a volta anche irridente, come di cose troppo variabili, troppo cangianti per non riuscire incongrue con la dignità del filosofo che è filosofo (diceva) se e finché scruta l’eterno.

In fila

Variabili, cangianti i dispositivi della libertà? Sicuro. Solo però che di cambiamenti per accumulo si tratta, di cambiamenti cioè che sul germe di un pacchetto primigenio di diritti (i diritti di libertà) hanno visto poi aggiungersi tutti i mutamenti successivi e tutte le libertà posteriori.

Ma, appunto, di aggiunte si tratta; di addizioni, non di negazioni, di svolgimenti e non di capovolgimenti. Voi provatevi: provatevi ad immaginare una società democratica, una società cioè dove a tutti viene assicurato il diritto politico per eccellenza (che è il diritto di voto) senza il primigenio diritto di riunione, senza la primigenia libertà di parola o senza la primigenia libertà di stampa; provatevi, e poi saprete cosa pensare del liberalismo molle, perché privo di ossatura istituzionale, che è proprio della scuola crociana.

Penserete quel che ne pensava Sartori per il quale un liberalismo cosiffatto, tenero, aereo, languido come di chi fuma senza nicotina, non garantisce dalle imposture di una società dove magari tutti votano ma il voto non è libero perché non assistito da diritti di libertà previ che, soli, ne assicurano l’autenticità.

Che voto potrò mai esprimere se prima non sarò stato di libero di parlare con i miei amici; se prima non avrò discusso con loro in libere riunioni; e se, sempre prima, le idee maturate in questi liberi conversari non verranno dibattute su liberi giornali? Sarà violenza, ricatto, sarà manipolazione, la scheda del mio voto sarà tutto fuorchè il prodotto di una volontà autonoma. Ecco perché l’autonomia democratica viene dopo e postula l’ingranaggio giuridico delle libertà liberali.

In questo senso aveva cento, mille ragioni Sartori quando ammoniva che, certo, tutte le libertà vanno bene, purché in fila, con un inizio e una fine, una testa e una coda. Se si salta la fila, si finisce in testa-coda e allora... Allora avrete le votazioni iraniane, avrete le elezioni russe. Avrete cioè uno di quei maledetti imbrogli che sempre, con implacabile puntualità, costellano le vicende della schiavitù.

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