Da lettore e scrittore di racconti, da cultore di un modo orfano della teoria e da molti bistrattato (editori e agenti compresi), c’è una short story che devo rileggere almeno una volta l’anno, e preferibilmente d’estate, quando le notti si allungano e il sogno di tutti diventa uno specchio d’acqua, buttarsi al mare o in piscina: Il nuotatore di John Cheever, di cui è sacrosanto festeggiare l’anniversario, visto che usciva per la prima volta sul New Yorker nel luglio del 1964, esattamente sessanta anni fa.

È un racconto davvero speciale, anzi per una volta potremmo dire che è un capolavoro, tant’è che devo appunto rileggerlo almeno una volta l’anno.

Questo fenomeno della rilettura – ma per alcuni, me compreso, si tratta di una vera e propria liturgia – appartiene espressamente alle scritture brevi. Solo un racconto può essere riletto un’infinità di volte, perfino mandato a memoria come una poesia o una canzonetta di musica leggera.

Sotto la doccia canticchiare Il nuotatore di John Cheever, con quell’attacco che non ammette repliche, che ti dà la sensazione di essere l’unico attacco possibile per quel racconto: «Era una di quelle domeniche di mezza estate in cui tutti se ne stanno seduti e continuano a ripetere: Ho bevuto troppo ieri sera».

La trama

Di che parla Il nuotatore? Togliamoci subito l’incombenza di riassumerne la trama. In una torrida giornata estiva, un uomo vuol tornare a casa nuotando attraverso le piscine del vicinato. Un’idea geniale, che tuttavia da sola non sarebbe bastata a rendere il racconto il pezzo gigantesco che è (penso a un altro racconto geniale in cui però l’idea di partenza non è sorretta da un trattamento all’altezza, Wakefield di Nathaniel Hawthorne).

Ci vuole la scrittura, e Cheever è un erede diretto di Guy de Maupassant, un metafisico materialista, un filosofo della trascendenza col vizio della sensualità.

A differenza di molti altri suoi colleghi americani del Novecento, ne Il nuotatore Cheever dimostra che essere uno scrittore sensuale – cioè perfettamente a proprio agio con la resa delle cose terrene – non esclude ma anzi amplifica la dimensione sovrasensibile della narrazione.

«Neddy Merrill era disteso vicino all’acqua verdognola, una mano immersa nell’acqua e l’altra stretta intorno a un bicchiere di gin.

Era un uomo snello, con quella particolare snellezza della gioventù, e pur essendo tutt’altro che giovane, quel mattino era scivolato giù dalla ringhiera di casa sua, dando poi una pacca sul sedere della statua in bronzo di Afrodite sul tavolino nell’atrio mentre trotterellava verso l’odore del caffè in sala da pranzo».

Realista e fantastico

Nel saggio introduttivo del libro Storie di solitari americani (Bur), Gianni Celati parla della differenza e del passaggio, non senza traumi, dal tale alla short story: «I racconti di Hawthorne, Poe, Melville erano chiamati tales, parola che copre un campo misto di narrazioni (…). Solo nella seconda metà dell’Ottocento si imporranno le restrizioni della verosimiglianza, con la regola realistica che riduce il campo del narrabile entro il raggio d’esperienze d’un lettore medio.

Di qui in poi gli autori potranno proporre le loro storie nello stesso modo in cui sono proposte le notizie giornalistiche, come dati di fatto assoluti, senza nulla che sia dubitabile o ipotetico».

Con l’ombra lunga di Hemingway, il Novecento americano è stato un tributo a questa realtà inventata dagli scrittori, laddove il minimalismo non è stato nient’altro che un realismo alla seconda.

Pochissimi scrittori hanno avuto la forza di sottrarsi a questa sorta di diktat o marchio di fabbrica nazionale. Il nuotatore parte dalle classiche premesse realistiche – il post sbornia del protagonista, la società opulenta e ipocrita nella quale vive, le piscine di varie fogge e colori come una American way dorata attraverso cui raggiungere comodamente la propria villa – ma si trasforma ben presto in qualcosa di molto più angosciante: il protagonista comincia a non riconoscersi più nel posto in cui vive.

Agli occhi dei vicini, mentre lo vedono impegnata a tornare a casa una bracciata dopo l’altra, appare come un tipo strambo, un estraneo, uno sconosciuto. Le righe finali – perfette – sfondano ulteriormente la dimensione realistica, traghettando la narrazione dallo strano al fantastico. Il nuotatore di Cheever è una short story sospesa un po’ realistica e un po’ fantastica.

L’arciamericano

Quando nel 1969 una giornalista della Paris Review andò fino nel sobborgo newyorkese di Ossining per intervistarlo, Cheever si atteggiò a prima donna. Proprio come il protagonista de Il nuotatore, pretese di farsi una nuotata nel laghetto vicino casa per schiarirsi le idee. «Quando scrivo un racconto che mi piace è meraviglioso. È quello che so fare, e adoro farlo. Dico a tutti di lasciarmi solo, in genere dopo tre giorni ho finito».

In questa semplice dichiarazione è racchiusa tutta la stringata poetica di Cheever: poca teoria e molta pratica. Poetica che diversi altri grandi scrittori americani di racconti avrebbero potuto sottoscrivere, da Richard Yates a Tobias Wolff. D’altronde Cheever è stato un narratore arciamericano a cominciare dalla sua biografia: ha rappresentato una specie di summa di tutti quei vizi leggendari che siamo ormai abituati ad associare agli scrittori a stelle e strisce.

I suoi genitori ebbero un tracollo finanziario a causa della grande depressione del ‘29, primo coitus interruptus del sogno americano, la sua carriera scolastica fu quantomeno tormentata e culminò con un’espulsione senza appello, il suo ménage familiare andò presto a rotoli trasformandolo in un tabagista e alcolista accanito, le sue incursioni nella vecchia Europa (soprattutto a Roma) non riuscirono a guarirlo, il suo rapporto con il cinema e Hollywood si consumò rapidamente tra lauti assegni e porte sbattute in faccia, la sua controversa sessualità gli valse la patente di nevrotico affetto da sdoppiamento della personalità.

Insomma ce n’è abbastanza per ricordare i tormenti di tutti gli altri maestri della short story, da Francis Scott Fitzgerald a Raymond Carver. Come tanti altri, come tutti, anche Cheever affidò il suo battesimo letterario al New Yorker, dove poi proseguì a pubblicare con regolarità decine di racconti: come gli capitò di affermare, abbastanza per mantenersi e comprare un vestito nuovo all’anno.

La consacrazione

Come scrittore di racconti la consacrazione arrivò nel 1979, quando la raccolta The stories of John Cheever vinse il prestigioso Premio Pulitzer per la narrativa e restò nella classifica dei best seller per oltre sei mesi. Il luogo comune vuole che lo scrittore scriva racconti per prendersi una pausa tra un romanzo e l’altro.

Per Cheever è stato vero forse il contrario: continuò a scrivere racconti per cinquant’anni, cedendo raramente alla tentazione d’intraprendere progetti più lunghi.

Anche se nell’introduzione a The story of John Cheever definì la raccolta come una rigorosa documentazione della propria immaturità, non scambiò mai la brevità con la superficialità (o all’opposto la lunghezza con la profondità).

In Cheveer, ancor prima della storia o dei personaggi o dei temi, a colpire è proprio il rispetto per la forma racconto, la sistematica non sottovalutazione di una modalità invisa agli editori, nei casi più felici la devozione di poter dire ciò che si ha da dire con il minor numero possibile di parole. E non c’è dubbio, cosa assai bizzarra, che i suoi racconti siano più celebri dei suoi romanzi.

Sono racconti che parlano della doppiezza di una certa borghesia che tende a predicare bene e razzolare male o, se si vuole una lettura più sottile, di quanto piaccia agli uomini rendersi detestabili e infelici. Tuttavia nessuno regge il confronto con Il nuotatore.

C’è un dislivello tra questo racconto e il resto della produzione cheeveriana che fa spavento e fa anche scuola. Non basta la dedizione e la costanza per aprirci la porta della grandezza assoluta. E, nonostante tutti gli sforzi, è anche possibile che si apra una volta sola.

Tornando a Ossining nella primavera del 1969 e all’intervista che causò quel tuffo purificatorio, Cheever tra le altre cose dichiarò: «La narrativa deve illuminare, esplodere, ristorare. Non credo ci sia alcuna filosofia morale nella narrativa oltre all’eccellenza».

Qualcuno al New Yorker gli insegnò che bisognava togliere l’ultimo paragrafo per ottenere un buon finale, cioè che raggiungere l’essenzialità era un processo laborioso e nient’affatto scontato.

Così Cheever cominciò a farsi una domanda del tutto inusuale: non più cosa posso scrivere in più, bensì cosa posso scrivere in meno? Nella risposta a questa domanda risiede tutta la destrezza dello scrittore di racconti. Intanto, ancora e per sempre, in alto i calici per Il nuotatore.

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